Gli occhi vuoti dei Santi di Giorgio Ghiotti


Sono precisi, alti, lievi eppure implacabili, identificabili in un quotidiano comune eppure stranianti nello scarto tra apparenze e significato - colto meravigliosamente - i racconti de Gli occhi vuoti dei santi (Hacca Edizioni), nuovo libro del giovanissimo Giorgio Ghiotti dopo la raccolta Dio giocava a pallone (Nottetempo, 2013), le poesie di Estinzione dell'uomo bambino (Perrone, 2015) e Mesdemoiselles. Le nuove signore della scrittura (Perrone, 2016).

La scrittura di Ghiotti è rivelazione e bellezza: sono le relazioni familiari - generazionali, in particolar modo - il suo campo di indagine, in cui si lascia scivolare conscio che al riemergere il taciuto parlerà più forte dell’esplicitato.
Emblematico di quest’ultima raccolta è il racconto Mio padre, che si fa occasione di recupero della memoria di infanzia e adolescenza di chi narra e sollecita la narrazione di perdite, di riti di passaggio obbligatori, della tremenda morte in casa.
La scomparsa del genitore apre a domino svelamenti, altre verità: la scoperta, dolorosa, che il mondo degli adulti non è come vorrebbe consuetudine solo protezione o bontà incondizionata: i padri, le madri, i loro fratelli e sorelle sono esseri che scavano distanze, plasmano segreti, alimentano crudeltà, deformando la mitologia familiare a loro uso e consumo.

Senza barba sembra un bambino. Pure il fisico si è
come ritirato. Non dimagrito, proprio ritirato, è sempre
lui solo in miniatura, sprofondato nel letto senza respiro.
Che anno era?
L’arco della cucina lo avevano già abbattuto, ma la
televisione non era ancora stata cambiata; per tutta casa
avevano installato i condizionatori, e i ventilatori a tre
velocità erano un ricordo lontano messo a dormire in
soffitta sul fondo, insieme alle scatole delle scarpe con
dentro i pupazzetti di plastica dei cartoni animati, dei
dinosauri, le bacchette magiche di vetro che non hanno
mai fatto alcuna magia – e quanto ci speravo.
Lo vedo così il pomeriggio di quell’anno fatidico, in un
silenzio orizzontale. Mi viene da ridere se penso “è mio
padre”.

Il ricordo corre subito ai bambolotti della giocheria
Bertè che affollavano la vetrina di viale dei Colli Portuensi
che anno era? Più avanti, più indietro; l’insegna
a quel tempo s’illuminava tutta la notte e a Natale la
saracinesca restava alzata per ventiquattr’ore di fila, poi
qualcuno ha staccato la spina, spenta una volta per tutte,
e ci hanno scavato un garage.
Bertè. Quando ci passavamo davanti la domenica
per andare a messa, mi piantavo là appiccicato al vetro.
Domenica dopo domenica capii da me una verità sconcertante:
non è vero che tutti i bambini sono belli come
ripeteva di continuo mia zia. Lei ha sempre avuto un’inclinazione
per l’universale, per le affermazioni apodittiche,
definitive, melodrammatiche.
Quando entra nella camera da letto di mio padre
indagando il suo corpo immobile dice soltanto: «Sta
bene a Dio» con tono solenne.
«Sta bene a te», fa mia madre, e se la porta fuori
perché mio padre diceva sempre ch’era cattiva e aveva il
male intorno, mia zia.

In effetti un precedente c’è. Anche a mio nonno,
il padre di mio padre, gli è morto il suo vecchio in casa.
Mio nonno veniva dal Veneto, ne parlava sempre
come di una terra di mito, e quando mi hanno fatto vedere
in foto la casa della sua infanzia sono rimasto molto
deluso, perché non c’era nulla di mitologico in quella
casa di contadini con tanta polvere intorno e un albero
e un palo della luce che, quando l’avevano sistemato là,
non sembrava vero e di notte un po’ inquietava il sonno
di mio nonno. Lui dormiva tre ore a notte, si è guadagnato
un bel po’ di vita.
Così quando il padre di mio nonno si ammalò, lo
portarono da quel suo Veneto di fiume e polvere e estati
di calore totale a Roma, dove suo figlio si era sistemato
con la moglie – mia nonna, ma di lei non mi va di parlare,
una donna che ha passato la maggior parte della sua
vita a convincere gli altri di non essere cattiva.
Gli morì il padre in casa, a mio nonno, con la bocca
spalancata come a schiudere un tesoro. Quando me
lo raccontavano da piccolo rabbrividivo. Io ho il terrore
di chi muore in casa.

La gestione del momento, doverosa e concreta, viene affidata come spesso accade, alle donne sotto l’occhio attento e fermo di chi narra.
La pragmaticità del femminile inutile e sola […]
Mia madre ha calibrato ogni gesto come un sacerdote,
come si fosse preparata a lungo per quel momento.
Ha socchiuso le finestre, tirato la tenda, un cerimoniale
solenne lontano da sguardi indiscreti. Lo ha girato sulla
schiena con disciplina, ha chiuso gli occhi con un movimento
sicuro. Lo ha sfrattato dei panni che aveva, lo ha
rivestito con studio: mutande calzini pantalone camicia,
poi il suo maglione preferito, a rombi azzurri, come il
giorno che ha vinto il concorso al Comune.

In questo e negli altri racconti de Gli occhi vuoti dei santi, la straordinarietà di Ghiotti è il rimando,
attraverso il dettaglio, di un intero sostrato, di un vissuto: piacerebbero a Natalia Ginzburg (citata peraltro apertamente come lettura fondativa) questi racconti, nel tratteggio dell’ambito familiare, nell’acutezza di osservazione.

Per prima cosa non erano mai andate d’accordo. C’era tra loro un’antipatia naturale che si fatica a pensare reale
tra una madre e una figlia.
Quando Christine era nata, la madre si era detta
pronta ad accoglierla nella sua vita. Sinceramente pronta.
A lungo si era allenata all’allegria, perché i figli portano
allegria. Non è vero. I figli portano quello che capita.
A volte una malinconia felice, altre una tiepidezza simile
all’indifferenza. Altre ancora un fastidio. Christine aveva
portato fastidio, ma l’esercizio all’allegria funzionò
pasticcere sapeva di limone e pastafrolla.
Le stanze persero contatto con la luce. Iniziarono a deperire.
C’è un odore preciso che caratterizza le stanze
quando le si priva di luce, di aria.

Anche uscendo dall’ambientazione del bozzolo, del nucleo primigenio, al momento delle nascite di dolorosi amori spesso a senso unico, lo scrivere di Ghiotti è denso, controllato

Mi sembrava una cosa bellissima seguire qualcuno per anni, diventare
grande esperto della sua schiena, dei suoi capelli, della
sua andatura, sapere di poterlo riconoscere ovunque.

Ci saranno e passeranno gli amori, il mondo porterà sostanza e apparenza - come il titolo, volutamente ambiguo: il vuoto degli occhi dei santi è assenza di qualcosa di superiore che regga e imprima senso, o è impressione amara di chi guarda e non trova risposte? – ma rimangono, tenacissime, le relazioni fraterne e amicali, consumate in una Roma vivissima, presenza imprescindibile

Da quassù la città si vede tutta. Ci sono i locali
del centro, pub e ristoranti aperti anche tutta la notte, ed
è un continuo sfavillio di luci, impossibile distinguere.
Qua e là macchie scure nell’illuminazione urbana come
tumori. Roma sembra un enorme, informe corpo in movimento.
Come per il giorno e la notte, anche Roma
prima è città e subito dopo non lo è più, subito dopo è
un motorino abbandonato al margine della carreggiata
privato della sella, del parabrezza, di una ruota.


Si muovono in sospensione, a doppio binario, i personaggi di Giorgio Ghiotti, con la vita che scorre comunque, la si perdoni, la si accantoni momentaneamente e lì rimanga in potenza fino a uscire nelle seconde possibilità. Oppure nel ricordo, lancinante, doloroso, inevitabile, non redimente.

Un libro bellissimo.

Anna Vallerugo

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