Piccola autobiografia narrativa di Giuseppe Mauro.


Giuseppe Mauro è un uomo gentile, che sta sulla soglia e che conosce la vita e la delicatezza, uno scrittore di classe che ha scelto percorsi appartati ma di grande valore. Ci siamo conosciuti online alcuni anni fa, io scrissi  la postfazione del suo libro "Silvia Dorme", siamo stati compagni in una storica antologia "Semi di fico d'india", ci siamo affiancati, ritrovati, e sentiti online con un garbo  e una profondità che sono davvero qualità rare, di primissima scelta. 

Adesso è in uscita "Arriva da Ovest" di cui per il momento ho letto solo qualche estratto ma ma sono rimasta così colpita che ho pensato di chiedere a Giuseppe di raccontarsi un po', nel modo che riteneva più adatto, che gli somigliava di più. Ci tenevo che qui sul blog ci fosse visto che grazie a lui ho ripreso a scriverci e a narrare alcune cose personali, ho ricominciato a dare valore a uno spazio che esiste da tanti anni. Giuseppe è sicuramente uno scrittore che contribuisce a dare valore.

Ed ecco il brano che segue, e poi un estratto dal romanzo. 




 Piccola autobiografia narrativa

Da quello che ricordo, sono scivolato abbastanza presto in quella nebbia

confusa in cui i bambini si imbattono prima di diventare ragazzi, e poi adulti.

Non che quella nebbia si diradi del tutto, proprio no. Solo che da quel momento,

dopo un iniziale smarrimento, cominci a escogitare modi e strumenti per uscirne

o, quantomeno, per ritrovare la possibilità di vedere le strade davanti.

La scrittura è uno di questi strumenti.

Ci si prova, allora, a tradurre certe onde che emergono dall’anima in giorni

scomposti, improvvise, talvolta rabbiose, altre volte più docili. Non hanno forme

consuete, quelle onde e scioglierle in parole non è mai un gioco, anche quando

può sembrarlo. Ché, in fondo, le traduzioni sono da sempre una forma di

tradimento, sia pure parziale, degli intendimenti e della volontà del pensiero e

delle emozioni.

E allora, che fossero poesie o canzoni, racconti o tentativi di romanzo, la penna

– ché i computer non c’erano – l’ho imbracciata ben presto. Conservo certi

quaderni e i diari segreti farciti con una scrittura piccola, rotonda,

compostamente malinconica, così lontana. Ricordo quanto mio padre ne fosse

orgoglioso, lui che aveva una fissazione per i libri ma non gli strumenti, o

l’ambizione, per scriverne lui stesso. Composi, avevo più o meno dodici o tredici

anni, una roba lunghissima che si chiamava Diario di un anno non allineato. Era

una sorta di romanzo fantapolitico, in mezzo a guerre e scontri tra ideologie

(c’era ancora l’Unione Sovietica, che

all’epoca era un modello per me indiscusso): ebbene, mio padre raccolse tutti

questi fogli scritti a mano, li portò da un amico tipografo e li fece trascrivere,

stampare e impaginare. Da qualche parte conservo ancora il Volume, con la

copertina trasparente e il dorso azzurro.

Il primo romanzo breve l’ho poi pubblicato nel 2003, con Prospettiva Editrice,

collana “On the road”: si chiamava Il futuro che non c’era e raccontava la mia

fugace esperienza in Blu, operatore telefonico che ebbe breve vita prima di

essere affossato e smembrato dalle vicende finanziarie che attraversavano il

mercato delle telecomunicazioni dei primi anni 2000.

L’anno dopo fu la volta di Silvia dorme, pubblicato da Il Foglio di Gordiano Lupi,

con la prefazione dell’amico Gabriele Dadati - con cui ho condiviso per qualche

anno un blog bello e suggestivo, Capitani coraggiosi - e la postfazione

dolcissima di Francesca Mazzucato.

È stato, quello, un tempo in cui ho scritto tanto. Ho vinto concorsi di racconti, ne

ho pubblicati alcuni su diverse riviste, altri sono stati selezionati e inclusi in

raccolte di cui vado abbastanza fiero. In particolare, Semi di Fico d’India,

pubblicata nel 2005 da Ediciclo, curata da Marco Nardini e in cui comparivano

racconti, tra gli altri, di Gianluca Morozzi, Nicola Lagioia, Francesca Mazzucato,

Gabriele Dadati; e Vedi Napoli e poi scrivi, pubblicata da Kairòs nel 2005,

curata da Aldo Putignano e con le firme, tra gli altri, di Francesco Piccolo,


Maurizio de Giovanni, Giuseppe Montesano, Antonella Cilento, Roberto De

Simone, Antonio Pascale.

Poi, mi sono fermato. Lavoro, vicende personali, problemi da affrontare e da

sistemare, gli ostacoli che la vita ti mette davanti e che richiedono un mucchio

di energie per superarli

o per aggirarli, allungando la strada che stai provando a percorrere e il tempo

necessario per farlo. Non ho mai smesso di scrivere, quello no. Ma nelle

cartelle del mio computer si sono accumulate bozze indistinte, progetti

embrionali, idee acerbe che non ho avuto il tempo di concretizzare, cui non

sono riuscito a dare una forma, a farne mondo.

Questo libro, Arriva da ovest, è uno di quei progetti. Ho cominciato a scriverlo

nel 2014, l’ho completato più o meno tre anni fa, poi ci ho messo ancora le mani

non so quante volte. Non è stato facile scriverlo. Dentro ci sono pezzi della mia

vita, momenti difficili, la traduzione in parole (sempre quella) di giorni complicati

e di certe notti insonni e piene di angoscia. C’è la storia, appena accennata,

della mia relazione familiare con un avo famoso, lo scultore salernitano

Gaetano Chiaromonte, di cui mio nonno fu uno dei figli illegittimi. Quella

vicenda, la storia d’amore tra lo scultore e la modella che fu la mia bisnonna, è

rimasta nascosta da sempre, non appare in nessuna biografia. Ho pensato

allora che, pure in un libro che presumibilmente non avrà fiumi di lettori, fosse

arrivato finalmente il momento di renderla nota.

E insomma, questo romanzo che sta tra lo storico, il fantasy, l’autobiografia e la

storia d’amore predestinata, alla fine è giunto a una conclusione che mi pareva

compiuta; perciò, l’ho mandato a Homo Scrivens, la piccola e brillante comunità

editrice di Aldo Putignano per avere uno specchio da cui carpire un riflesso e

magari un senso che non fosse solo il mio.

La storia è piaciuta, è diventata un libro.

Ne sono contento.

E spero lo siano anche i lettori, una volta arrivati in fondo al viaggio e al mondo

che ho provato a disegnare.


ARRIVA DA OVEST – un estratto


Entri nella sala T1, Eleonora ha già cominciato, gli studenti ti guardano

entrare, timori e convinzioni scolpite negli occhi; tu sei nel presente, ti siedi

accanto a Eleonora, la saluti con un bacio sulla guancia. Scacci via l’angoscia,

con cattiveria.

Inevitabilmente, pensi a ciò che sarebbe potuto essere soltanto se.

Soltanto, già.

Tu volevi fare il medico, capire le cose.

E sei una donna disincantata, sufficientemente cinica, c’è stato un tempo in

cui facevi il pellegrinaggio a piedi da Napoli a Pompei, fin dentro al santuario,

adesso però non credi agli dei, non credi ai miracoli, non credi a nulla che stia

fuori dai cerchi delle vite che si intrecciano in un girotondo di casualità eterne

privo di ragioni e di disegni unificanti. Sei fatalista, senza abboccare alle

tentazioni del destino.

E lo sai che tutto questo vale anche per tuo padre, lui aveva settantacinque

anni e milioni di respiri tra i vapori d’acciaio, il tempo se l’è preso come porta via

miliardi di vite dall’inizio delle cose per poi ricrearle in un vortice di storie senza

senso, senza scampo.

E lo sai come sai che tu c’eri, sei stata lì accanto in quella stanza d’ospedale

attraversando i suoi ultimi giorni – sei in tutto – e gli davi da mangiare e i medici

venivano ma non ci capivano niente e voi ne ridevate, tu ridevi alle sue battute

dissacranti sui dottori sulla malattia sulla sua fine prossima ventura e poi andavi

a piangere di nascosto nel bagnetto della stanza, piccolo, sporco e

maleodorante, poi tornavi e gli rimandavi ogni battuta e lui rideva e lo sapeva

benissimo che stava morendo, non si ammalava mai e adesso era magro come

un chiodo – “il giorno in cui vedrò un medico chiamate pure il prete, ché sarà

venuta la mia ora” – e bofonchiava in silenzio davanti alle apparizioni e ai

lamenti di tua madre protetto da una pazienza che veniva direttamente da certe

storie bibliche, tu c’eri e c’eri tu sola e gli davi il cucchiaio e lo pulivi e lui era

come un bambino che si vergognava e ti diceva “ma lo avresti mai pensato che

saresti finita a…” ma tu lo fermavi, non gli lasciavi finire la frase e dicevi “pensa

a stare bene”, lui sorrideva storto “sembrano passati pochi giorni che ero io a


farti mangiare” e questa storia della vita e della morte – tu pensi – deve essere

una vendetta di un qualche essere rancoroso oppure criminale non certo di un

dio ma va bene, tu sei una donna disincantata e sufficientemente cinica.

È vero.

Il fatto è che tu volevi fare il medico, capire le cose e poi la tua vita è andata

altrove. E tu non riesci a evitare di pensare che soltanto se ce l’avessi fatta, se

avessi avuto tempo e spazio e testa e quello che serviva, se le tue

maledettissime paure non avessero sequestrato i tuoi sogni e milioni di ore

rinchiuse in un passato ormai sepolto e inutile, tuo padre si sarebbe ammalato

lo stesso ma tu avresti capito, l’avresti curato; avresti rovesciato il destino.

E tu non riesci a evitare di pensare che, soltanto se, babbo sarebbe ancora

vivo.

Commenti

Post più popolari