PICCOLE AMNESIE FRA LA VITA E LA MORTE






NEI PRESSI DI VIA DELLA CONCILIAZIONE, ROMA
ORA IMPRECISATA DEL MATTINO



pensai noncurante con quell’infallibilità con la quale siamo soliti fallire, con quella cecità risoluta, con quel modo in cui non riconosciamo mai la continuità nell’attimo, la conseguenza del caso, la collisione nell’incontro..
Imre Kertész


Arriva in cucina scalza pestando briciole rimaste dalla sera precedente e pensando piccole cose sconclusionate.
Si sente uno spettro, uno strano clandestino salito a bordo in modo avventuroso, a bordo non di una barca ma di un condominio dignitoso in una delle migliori periferie romane, terzo piano con terrazza, ma come ti sei sistemata bene pronunciato in coro dalle amiche d’ infanzia invitate a volte, solo per mostrare, solo per afferrarsi agli oggetti e nascondere dietro alla roba, a quelle belle cose allineate e fatte vedere simulando orgoglio, quella mancanza persistente, quel dolore indefinito e in fondo incompreso. Una casa dove lei ha atteso i ritorni delle figlie e da poco anche quelli del marito, dove ha atteso anche solo per attendere, che qualcosa accadesse, che il tempo accelerasse all’ improvviso, con bagliori catodici, qualche telefonata noiosa e due gocce di sambuca come compagnia
(se escludiamo le vene varicose e quel ponte che continua a cadere e il dentista che continua a diradare gli appuntamenti). Solo due gocce, non è mai stata persona capace di eccessi. Li ha spinti dentro, deglutiti, silenziati, i sentimenti esagerati, le passioni, i melodrammi. Li ha stipati dove non fossero indecenti alla vista, dove potessero, in qualche modo, essere domati.
C’è sempre quella luce, quella luce incredibile ad ottobre, quella luce stratificata di storia, di glorie passate e di ingloriose vicende presenti, che pare filigrana, che sa essere grandiosa, eccessiva, o trasformarsi nella sottile supplica del cielo. Clandestina. Eppure è la sua casa: quei muri, quei centrini, quei quadri, quei libri mai letti, quei cuscini etnici, quelle lampade di carta di riso, quelle vetrinette adatte ad una esposizione ad uso facciamo vedere il nostro benessere ai vicini, quel televisore da un chilometro di pollici e gli altri tre sparsi nelle stanze, i divani di pelle che costeggiano i muri formando una elle perfetta, tutti quegli oggetti, tutta quella moltitudine di roba, è anche sua, la stordisce ricordarselo ma è così. Un tempo gliene importava, un tempo lucidava le vetrinette, lavava i centrini e si chiedeva quale fosse il prodotto più indicato per pulire il divano. Adesso è quasi amica di quella polvere che si deposita adagio senza risparmiare niente e mostrando quanto andare fieri di possessi pesanti e ingombranti, destinati a logorarsi e poi a rompersi, sia solo un’illusione: adesso le importano molto meno, quasi niente. Si è svegliata presto e ha programmato la sua giornata nella penombra dell’alba percependo i respiri dei famigliari ancora addormentati e godendo della luce che gradualmente inizia a filtrare dalla tapparella non del tutto abbassata. Giornata da umore danzante, da voglie inimmaginabili, da libertà mai ritenute possibili. Ha deciso di vedere davanti spianate e rincorse e non più impedimenti. Si tratta solo di spostare il punto di vista, un semplice cambiamento d’inquadratura, come al cinema. Lo fanno al cinema, si può fare anche nella vita. Modificare, grattare via il superfluo, mutare la prospettiva, aderire ad altro. L’ha fatto. Tempo liberato dalle telefonate ai carpentieri, dall’ enorme, dai silenzi da sostenere, dalle crepe da riparare, dalle situazioni oblique da raddrizzare, dal dovuto, dalle file dal macellaio per quella carne tenera che piace tanto al marito, dal sovraccarico, dal confuso, dall’ utile, tempo da riempire, ricucire, pitturare di stati d’animo incolti e selvaggi, o solo pacati e silenziosi, dipende. Sorride alla giornata che si delinea come si delineano adagio le bancarelle del mercato rionale, fitto come possono essere fitti solo certi mercati rionali romani con caciara di voci compresa. C’è la vecchia storta che raduna cocci di cose e le stende su un lenzuolo per vendere quello che può, quello che riesce, quello che possiede e le permette di tirare malamente e poveramente avanti, quelle carabattole logore, quasi niente. La conosce, tutti la conoscono. Prima di andare in centro si fermerà da lei, le porterà un contenitore di zuppa calda avanzata ieri sera, scambierà due chiacchiere seguendo i pensieri sconnessi della vecchia, pensieri che ogni tanto prendono direzioni dove nessuno la può raggiungere o seguire, ma a lei non importa. Si fermerà a gambe incrociate accanto al lenzuolo osservando la miriade di oggetti sparsi che la donna storta offre come tesori. Le comprerà qualcosa, lo fa sempre il giorno del mercato. Un bottone lucido color crema, una conchiglia sbrecciata, una medaglia pesante con simboli indecifrabili, una tazzina da caffè senza piattino, sono belle, non si ricorda mai dove le ha trovate, dice che sono di un'anziana marchesa, poi si dimentica e dice altro. Le comprerà magari un vecchio rossetto, un libro con le pagine – se ancora ci sono- ingiallite e macchiate. Ne ha già presi tre o quattro. Le piace pensare che siano passati per molte mani i libri della vecchia storta, a volte sono edizioni in italiano, a volte in francese, a volte in lingue che lei non conosce, non importa: le piace averli, nasconderli nei cassetti perché il marito non brontoli dicendo che spende i soldi in cose inutili.
Cose inutili. Che definizione violenta, risuona già come una condanna senza prova d’appello, se compri o raccogli cose inutili, in fondo sei inutile anche tu e hai tempo da perdere e non tempo per guadagnare come le persone produttive e concrete. Suo marito è così, produttivo, concreto, pratico. Lei non è così ma per troppo tempo ha subito la sottile vergogna di questa non manifesta sensazione di inutilità. Ha deciso che era troppo. Troppo quel darsi da fare per nascondere un inesistente pezzo mancante. Adesso a suo marito pensa in un modo che un po’ la spaventa e un po’ la diverte, le par di vederlo da una chilometrica distanza. Fiero delle sue certezze, legato al pochissimo che esalta e che tiene stretto come un tubero alla terra smossa; non si impegna in quello che non serve, non ne ha la necessità; non si imbarca per partire, si lascia trasportare, come una cicca di sigaretta nello scolo di una fogna; il mediocre nasce perfettibile in potenza, ma cresce persuaso di aver già dato il meglio di sé poiché nato, e vive con lentezza, naturale e molle. Parla di utile e di inutile e si impone, si impunta, si irrita. L’utile è la sua cifra per capire, altre modalità sono escluse, roba da buttare, buona per buffoni, poveracci, saltimbanchi e nullafacenti. Per lei non sono inutili i cocci di cose che la vecchia sistema al mercato, in un angolo nascosto dal resto, su un lenzuolo un po’ giallo (un tempo di certo pezzo forte di un corredo, un tempo ormai in frantumi come i ricordi della donna), nella parte di parco che le bancarelle non vogliono perché scomodo e sporco. Per lei sono ritagli di storie e tracce di vite alle quali ha deciso di prestare attenzione. Ha smesso di affannarsi ,si concede tempo, momenti tranquilli, dei piccoli niente di giornata solo sua, lascia scorrere un tempo- non tempo, malleabile e fluido. Non condiviso, non assegnato. Un tempo sommesso ed eccitante che le si snoda davanti carico di immense possibilità, possibili tracciati, amnesie e ricordi che si avvinghiano per liberarsi a piacere come stelle filanti durante una rincorsa sul prato. Stare con la vecchia storta che srotola oggetti e litanie. Raggiungere il centro con il primo autobus. Scendere un po’ prima, fumare una sigaretta o due fra gli aborti di cemento della prima periferia romana.



Rosetta, la chiamavano le amiche durante lo struscio nel minuscolo centro di un paese roccioso a picco sul mare , un paese abbandonato piangendo finte lacrime di gioia, abbandonato con valige e corredo anni prima per fare un buon matrimonio, nella capitale è’ andata la mia figlia maggiore, ma ha sposato bene ve lo assicuro. Da anni nessuno la chiama Rosetta ma quando esce e si concede ai suoi ritmi, dimentica il resto e ritorna ragazza . Fuma fra i parallelepipedi di cemento e si sente solo Rosetta. La bobina si riavvolge con garbata e felina lentezza, il tempo si blocca, permette una tregua, uno stacco.
Rosetta – ricci rossi, Rosetta- scavalca muri, Rosetta che ha baciato in bocca un ragazzo prima delle sue amiche ( non era vero ma misero in giro la voce, lei non negò) Si sente dentro un flashback dal sapore di vaniglia, la gusta e la lecca, la vuole tutta, non ci rinuncia perché quel sapore la fa sentire viva, tutta la polvere accatastata in anni di silenzioso annullamento viene eliminata, si assorbe.
Cambio di inquadratura.
E’ arrivata: un piccolo bar nei pressi della grande strada che collega Roma con lo stato Vaticano, strada che fa sempre un certo effetto inquadrando scenograficamente la Basilica. Ha camminato un po’ e adesso è seduta a uno dei tavolini esterni. E’ di formica rossa, piccolo, traballante e anche unto, le hanno sempre detto che la formica non è fine e scegliendo le cucine nei mobilifici, è meglio preferire il legno e l’acciaio per un piano di lavoro adatto e funzionale, la formica mai ma lei ha smesso di visitare mobilifici, di fare la coda per informazioni insieme a famigliole per bene, tutte giuste, sudate, affannate in assetto di lotta per afferrare la buona occasione. Adesso che quel sapore di sconfitta che provava accompagnando il marito a guardare credenze e tinelli, a discutere di videoregistratori, condizionatori, controsoffitti, porte blindate, adesso che tutto quel cercare e arraffare è dietro le spalle, adesso che quel sapore di scadenze da rispettare come le rate, la cessione del quinto, il prestito in banca e la cambiale è un onere evaporato e lontano, la formica le piace, pensa che sia comoda, in fondo, e poi la fa sentire libera il solo fatto di sedere lì, da sola, pensando che ci andrà dopo a fare la spesa, solo quando potrà. Pensando che ha già fatto davvero tanto: ha trovato dalla vecchia storta un braccialetto con pietre colorate dove riesce a specchiare il viso e che trova bellissimo. Le ha lasciato zuppa, zucchetti fritti e frutta, pane e due cartoni di latte ( la vecchia l’ha guardata con gli occhi turchesi inumiditi dicendo: la prossima volta anche il vino). Ci andrà dopo in tintoria a ritirare i vestiti della figlia maggiore. Quella figlia che ama moltissimo e che un po’ le somiglia, la figlia più piccola costata uno squarcio nel ventre e quindici giorni di ospedale, in bilico fra vita e morte, giorni di oblio, di paure sedate, di pareti bianche, di minestre diluite, di caffè disgustoso, difficile deambulazione e odore di disinfettante perennemente nelle narici, giorni ormai remoti, appartenuti a Faggion Annarosa in Almiropulo e non di Rosetta, che ne sapeva Rosetta di tagli, squarci, cicatrici deturpanti, di grandi camerate di ospedale, di disinfettante?
Diventi madre, paghi il prezzo, puzza e deturpa. Essere madre è meraviglioso ma è anche un ergastolo senza tregua. La figlia chiede, urla chiede ancora. Anche questa volta si è raccomandata con insistenza, i vestiti, mamma, mi servono. Devi andarci, capito? Domani. Ok, le ha risposto e ha preso la ricevuta. Vuole tutto e subito sua figlia maggiore prima la carriera, per ora resto con voi. La piccola è a Londra, ogni tanto la chiama, le manca ma sa che quello che fa è buono, l’addestrerà a vivere consapevole e dritta ma la sua assenza la turba. C’è l’altra col suo continuo pretendere. Quella dannata ricevuta, eccola. E’ nella borsa insieme al suo taccuino, al rossetto, alle sigarette per la periferia, a un fiore che ha strappato raggiungendo via della Conciliazione , al portafoglio, al cellulare( spento) e a tante altre cose. Ci andrà ma non ora in tintoria, all’ Esselunga e anche dal tabacchino per il Gratta e Vinci da portare al marito.

Dopo. Chissà. Adesso tutto le sembra fuori fuoco e parte di una storia diversa, di una vita non sua. Non ci pensa. Fermi i pensieri e cambio di inquadratura. E’ proprio entrata in un film, Rosetta. Ha la città davanti, vuole guardare, e respirare, respirare e guardare. Ha preso un cappuccino e il barista con il cacao ha disegnato un cuore tutto storto. Ogni tanto disegna una faccia che ride e la signora Annarosa lo considera un segno di buon auspicio. Sa che dopo, dopo aver bevuto lentamente sporcandosi le labbra di schiuma, dopo aver osservato la gente e spiato discorsi, espressioni e vestiti, si incamminerà fino alla basilica sentendosi piccola e strana in tutta la monumentalità di via della Conciliazione, ma anche libera, e soprattutto viva. Non sapeva che esistessero dei luoghi dell’anima, pensava fosse una sciocchezza, e invece. Quei luoghi che ti fanno dimenticare, per un minimo intervallo di tempi- frattempi cuciti insieme chi sei e da dove arrivi. Che ti fanno tornare la Rosetta che si sbucciava le ginocchia nel sagrato della parrocchia e che non ci pensava a quella città enorme, caotica e piena di luce dove abita da talmente tanti anni che le si sono ingrigiti i capelli e la parrucchiera Tiziana li copre di castano da signora. Era una ragazza, ha socchiuso le palpebre ed è invecchiata. Tutta lì, la vita, una cosa così rapida, perfino irrilevante. Non immaginava quanto contasse l’istante e adesso lo vive, lo assorbe e lo annusa. In quel luogo beve il cappuccino sulla formica, amalgamato a ricordi che sfrecciano senza via di fuga, tutto torna e sembra che ci sia un filo, che le cose possano tenersi insieme con una certa leggerezza, anche se non dura quella sensazione di consapevolezza trasparente. Appoggia il fardello per qualche momento, è già tanto. Che architettura, che senso di celebrazione. Insieme al cappuccino mangia una brioche ben farcita di crema gialla e morbida. Accanto due donne parlano fitto. Hanno un drink che non toccano ma mangiano una patatina dietro l’altra. Si somigliano poco, ma hanno un modo simile di gesticolare e i tratti del naso e degli occhi, quelli sono uguali, Rosetta non si sbaglia.

-E se l'hospice...
-Se l'hospice?
-Hai detto veniamo al punto e questo è il punto.
-Infatti. Se l’hospice?
-Se fosse in realtà una forma di nuovo lager, un tentativo di estrema recinzione del morire?
- Ma che idea, andiamo, ma che pensieri ti vengono.
-Lo so, è assurdo. O meglio appare assurdo. Ma è un luogo adatto, creato all’apparenza per un fatto di servizio. In realtà per NOI. Per tutti. Non vedi? Non ti guardi attorno? Si cerca così affannosamente questo morire asettico, silenzioso, carbonaro, un morire da assenti, da lontani, diversi e altri da quelli belli e ordinati, puliti, con mascara e belletto, da quelli che sono buoni e giusti, che vivono ancora- provvisoriamente, ma ancora, che seguono mode e modi, tendenze varie, tutte le strade debordanti eccesso dei codici a barre, delle merci e della saturazione quotidiana per non pensare. Il morire per tutto questo è un disturbo, deve essere "rapido e indolore", deve non intralciare, deve essere un morire abbellito, stordito, sedato, un morire lontano da dove si spende, da dove si riempiono carrelli, da dove si mangia.
- Questa è follia, è una visione delirante di cui dovresti vergognarti. L'hospice è un segno di civiltà.
-Sì, forse. Questa civiltà- candeggina, questa sbianchettante civiltà che si siede alla tavola enorme di cibo - merci-posti al sole- danaro - affari- sputtanate pubbliche- esibizioni pubiche -prostituzione conveniente- oboli di palazzinari e banchetta, si siede a tavola chi è fortunato, gli altri spingono, spintonano, urlano, si fanno spazio a qualsiasi costo e si accontentano di spolpare qualche osso, lanciato dai più, beh, generosi? O dai già sazi. E quella sazietà impedisce di pensare che quella cosa da non nominare, la M***E, quella cosa che ci si tocca, si fanno gli scongiuri, si incrociano le dita, quella
cosa lì arriverà per tutti, è solo una questione di tempo.
-Dici cose scontate e retoriche, lo sanno tutti, e nessuno vuole..
-Nessuno
apertamente dice di voler negare questo, e come potrebbe? Ma nei fatti la grande negazione avviene. La clessidra procede, la speranza di prolungare il vorace restare su un pianeta razziato a prendere e cintare ogni cosa che possa essere incartata con un enorme post it dalla evidente scritta IO/MIO stampata sopra, quella speranza fa fatica a frantumarsi, a diventare impalpabile fluire, a diventare un niente di fronte al sorgere e cessare di ogni cosa: per questo gli hospice con queste cazzate, le camere con il nome dei venti, che cosa gliene frega, al morente, al terminale, di come si chiama la sua stanza? Se è in quella grecale o magari è stato così fortunato ed è finito nell’ ambita libeccio?
-Preferiresti dei lazzaretti? Della gente abbandonata a se stessa e alla violenza della malattia, senza sedazione, senza controllo, senza nutrizione?
-Non ho detto questo e non preferisco niente. Ma proprio niente. Penso che si tratti di morte congelata. Di una morte
Lidl. Rottamiamo in fretta e soprattutto con saggia rapidità. Non a caso negli hospice non è necessario l'oncologo.
- Non è necessario l'oncologo?
-No, sono quasi tutti anestesisti i medici che lavorano negli hospice, anestesisti ovvero pronti all'ANESTESIA con la maiuscola, quella finale.
- Ma dai, ci sono, a volte, anche degli oncologi.
- A volte, quelli sfigati che non hanno ancora un posto fisso da qualche parte e fanno i terminalisti per sbarcare il lunario. Con i morenti per guadagnarsi da vivere, quale meraviglioso ossimoro.
-Meraviglioso? Sbarcare il lunario? Il tuo linguaggio è indecente.
- E' vero e me ne faccio un vanto. Indecente come appare la morte al sistema che ne ha progettato il suo nascondimento.
-Poi parli di oncologi, ma ci sono malati terminali di vario tipo.
-Soprattutto malati oncologici, informati, please.
- Inoltre tu non sei neanche medico, perché pensi di aver diritto di parlare di queste cose?
- L’oncologia medica è un fatto culturale. Un fondamentale fatto culturale. Parole di un oncologo. E' la branca della medicina più moderna, e quella che maggiormente ha a che fare con la terapia genica e gli anticorpi monoclonali. Il tema oncologico investe vari aspetti contenutistici, anche creativi se vogliamo. Semantici di sicuro.
-Creativi?
-Si, mi vedi pazza, ma anche creativi. Tiziano Terzani
in Un altro giro di giostra*, malato, mentre veniva curato a New York chiamava "la ragna", l'apparecchio per la radioterapia, l'acceleratore lineare. Domandava con insistenza ai suoi "aggiustatori", i medici, perché proliferava una tale terminologia guerresca, di battaglia, di assedio, di combattimento a proposito del male( "vincerò la battaglia", "lo sconfiggeremo".) Si poneva queste questioni che sembrano sciocchezze ma sono cruciali. Questo è "creativo". La questione semantica poi è importantissima. Il cancro è sempre curabile, non sempre guaribile, come altre malattie. All'inizio si tratta di malattie diverse, alla fine, giunti al capolinea, le strade confluiscono in una situazione simile, terminale.
-Quindi?
-Quindi invece di inaugurare continuamente lazzaretti del contemporaneo con le camere dai bei nomi dove si resta un tempo rapido, colloso, mal scandito, strano, destabilizzante e lisergico, perché non lasciare la gente in pace, a casa?
-Perché a volte non ci sono parenti, oppure i parenti..
-Oppure i parenti non vogliono il loro caro/cara. Dicono che non ce la fanno, preferiscono che muoia altrove, che non sporchi, che non lasci per troppo tempo l'odore e l'impronta della morte nelle loro ordinate case Ikea, nei loro tinelli, nelle loro vetrinette con liquori assortiti.
-Mah.. forse intendi riferirti a me vero?
- Oh no. Non mi riferisco a niente. Per questo e su questo io non ho risposte e neanche le voglio trovare. Mi chiedo solo, è possibile che nell' hospice, nell'idea che sta dietro all' hospice ci sia il tentativo e la volontà di una nuova recinzione, di una nuova elaborata forma di segregazione?
Dico solo questo poi faccio un inchino agli astanti non plaudenti e mi tolgo di torno.
-Brava, vai pure, dovevamo parlare di nostra madre, dei suoi problemi e come al solito hai monopolizzato la conversazione. Chi è il tuo ultimo amante, un oncologo? Vai, lasciami sola a pensare alla mamma che non ne ha più per molto cosa credi? Lasciami qui a sentirmi cattiva perché ti ho detto solo che in casa mia c’è poco spazio. Arriverò alla Basilica e guardare la sua maestosa architettura mi darà molto più conforto delle tue parole, sciocca irresponsabile. Non ci sei mai, TU, nei momenti del bisogno, sai solo blaterare assurdità.

La ragazza che si è alzata ha allungato il passo, ne vede la sagoma vestita di nero e i capelli arruffati che si allontana rapidissima, sa che non sente più niente ma l’altra parla lo stesso, forse parla a tutti e a nessuno in particolare, parla perché ha bisogno di dirlo, di tirarlo fuori questo dolore pesante che le raspa le viscere, di fronte al quale si sente solitaria e impotente e la signora Faggion Annarosa in Almiropulo, sa bene cosa voglia dire la solitudine nel dolore, davanti alle decisioni difficili da prendere. Lo smarrimento e il senso di capogiro provocato da gente che non vuole capire o fa finta: per comodità o incapacità. Ordina un altro cappuccino e questa volta, sulla schiuma c’è un piccolo gabbiano di cioccolato e sul piattino trova un cioccolatino di menta. Il barista le fa l’occhietto, riesce a vederlo attraverso il vetro anche se è seduta fuori.
Passano due uomini. Arrivano da un negozio di souvenir, foto e calendari di vai Della Conciliazione, riconosce il sacchetto.

-Io lo so che mi hai portato a fare questa passeggiata perché….
-Perché sono tuo amico e voglio starti vicino.
- Vicino. Vicini. Lo so che hai buone intenzioni, ma non puoi fare niente, io sono un appestato, nessuno si può avvicinare sul serio, sono dannato, infelice e in ogni momento le mie riflessioni sono cupe.
-Sono qui per ascoltarti.
-Sai, abbiamo costeggiato luoghi sacri, visto la Basilica, bevuto qualcosa e non puoi immaginare cosa mi risuonava nella mente, insistente, ossessivo.
-Cosa?
-Questo:”Morire è facile/ la vita è un immenso campo di concentramento/ che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra/ e che l’uomo ha poi sviluppato/sino a farlo divenire un campo di sterminio per l’uomo/Suicidarsi corrisponde/ a fregare quelli che stanno di guardia../**
- Ti prego amico mio, lo so che sei depresso in questo periodo, ma io so come puoi uscirne, devi solo..

Vanno via. Ha udito solo un tassello del loro dialogo, la signora Annarosa è turbata, vorrebbe ma non riesce a udire la conclusione, forse non c’è conclusione, forse il discorso dei due uomini è collegato, dipendente, intrecciato al discorso che facevano le due donne, prima che quella infuocata di passione come un soldato in battaglia si alzasse di scatto abbandonando la sorella che è ancora lì e beve silenziosa un nuovo drink guardando un orizzonte lontano, trapassando con gli occhi edifici e persone
-Ci sono ancora brioche?
- Certo.
-Oh bene, me ne mette sei in un sacchetto? Porto la colazione alle ragazze della casa famiglia.
-Quelle che stanno con le suorine?
-Si quelle.
Ci sono gesti che nessuno può testimoniare davvero, pensa Rosetta distratta dalla ragazza con l’ombelico in vista e la faccia tonda, appena entrata, frettolosa, sorridente e debordante di vita e di meraviglia che prende le brioche e anche qualche focaccia al prosciutto per fare una sorpresa, porta la colazione in un posto che conosce anche lei, vicino a via della Conciliazione. C’è qualcosa di luminoso nella sua espressione, qualcosa di aggraziato nei suoi movimenti.
Andrebbe conservato, fissato.
Cosa rimarrà, altrimenti? Cosa rimane delle nostre minuscole speranze, delle varie amnesie, dei gesti d’amore ( rari, c’è così poco amore negli istanti)? Cosa rimarrà delle occasioni perdute, dei dolori e dei traguardi? Dei centrini, della vecchia storta, dei discorsi spiati, di quei cappuccini decorati?
Annarosa trascorre seduta altro tempo.
C’è una certa ora in cui arrivano gli studenti e da qualche giorno ne ha individuata una che ha definito La Studiosa Meticolosa. Sta sempre scostata dagli altri, si siede non lontano da lei, prende appunti, è carica di libri, meticolosa e concentrata. Quel giorno arriva, stesso cappuccino di Rosetta, alza gli occhi dal grande quaderno con le anelle, le sorride.
-Ciao
-Salve signora.
-Sai, perdona la mia invadenza, ma ti ho già vista qui: devi essere proprio brava. Scusa, dovrei farmi gli affari miei ma a me piace osservare le persone e tu sei graziosa e sempre così concentrata, così attenta.
-Grazie. Mi fa piacere questo complimento.
La Studiosa Meticolosa arrossisce. Rosetta pensa a sua figlia, a quanto tempo è che non arrossisce più. Che sbraita, pretende, si infuria, mostra impazienza e fastidio. Pensa che vorrebbe portarsi a casa quella ragazza, fare a cambio, non per sempre, solo per un affido temporaneo. Ha le lentiggini e la pelle talmente chiara che sembra possibile vedere il reticolo delle vene. E’ minuta, quasi trasparente.
-Di che cosa ti occupi?
-Studio Storia dell’Ebraismo a Lettere e Filosofia.
-Storia dell’Ebraismo?
- Sì. Mi voglio specializzare in Storia delle Religioni, ma l’Ebraismo è il mio grande interesse. Sto studiando la Torah. Sono tornata da poco da Venezia, dove ho visitato il Ghetto, la Sinagoga, il Museo. Lo sa che il ghetto ebraico a Venezia è il più antico del mondo?***
- Davvero?
- Si. Si trova nel sestriere di Cannaregio.
- Mi piacerebbe tanto andare a Venezia. Sono passati tanti anni… porto dietro solo ricordi legati a luoghi comuni, immagini stereotipate.
- Ci torni allora, e vada al Ghetto. La stupirà. Fu stabilito nel 1516: A Venezia ci sono 4 Sinagoghe di dimensioni differenti, tre sono Ashkenazi e una Sefardita. E’ l’unica che ho potuto visitare, veramente spettacolare con un tocco bizantino e uno veneziano.
- Come mai questo interesse?
- Mia madre è ebrea, mio padre no. Ci tenevo a recuperare le mie radici. Venga a vedere di che cosa mi sto occupando adesso.
Rosetta si siede accanto alla ragazza. Al paese, il parroco diceva sempre che gli ebrei avevano ucciso Gesù ma lei non aveva mai creduto al parroco, a quel suo parlare enfatico e spaventoso e le pareva idiota affermare che Gesù era figlio di Dio e che potesse comunque essere ucciso. Quella religione che le avevano insegnato da bambina era un insieme di confusione, una matassa senza capo ne coda che non aveva mai riguardato la sua vita. Un conto era il sacro.
Il sacro era qualcosa di più grande, di denso e comprensibile. Si poteva percepire, capire.
-Vede, sto studiando delle preghiere ebraiche e mi piace venire qui, piuttosto che fermarmi ad ammuffire in una biblioteca. Qui sento l’imponenza del luogo, la quiete e la bellezza. Tutto questo mi aiuta. Legga pure se vuole.
Rosetta guarda, un po’ tremante, intimidita.



-Meglio se mi spieghi.
-Vede, si tratta del Kaddish. Forse ne ha già sentito parlare.
-No, eh.. sai, non so molte cose io.( Vorrebbe dirle vengo qui per questo, non credere ho una certa età ma sto riacchiappando il mondo che mi è sempre sfuggito, sto cercando di imparare un pochino ogni giorno, vorrebbe dirlo a quella bella ragazza dall’aria meticolosa e seria, ma non lo dice. Si vergogna. Le sorride)
- Non importa. Il Kaddish, in aramaico Santificazione, è una delle più antiche preghiere ebraiche. La parola designa in realtà un insieme di preghiere, tra loro correlate e spesso unite nella liturgia giornaliera, i Kaddishim.
-I ..cosa ?
-I Kaddishim, che è il plurale di Kaddish. Sono quattro. Il Kaddish vero e proprio,
Ytgadal, il Kaddish Yatom, il Kaddish Titkabal e il Kaddish Al Yisrael. Pensi che sono preghiere molto belle, scritte in lingua caldaica tarda.
-Davvero?
-Sì, sono bellissime, aspetti che gliene leggo una, tanto, lei probabilmente non è ebrea ma non crede, signora che la sacralità in realtà sia universale? Che trascenda le singole fedi e che le parole che la esprimono siano comunque importanti? Abbiano dentro una musica e una potenza dovuta alla devozione delle persone?
Lo crede eccome Rosetta, crede nel sacro, crede in questo legame universale. E’ tutto collegato.
Ci ha pensato spesso a un’enorme circolarità di tutti i discorsi, la signora Almiropulo, a una tela che si tesse e che si disfa, e le amnesie sono i buchi, gli sfilacciamenti, le frange, mentre quello che si ricorda, quello che ci si scambia sono le parole , l’orlato sono i ponti e i confini fra la vita e la morte, a volte impercettibili, confondibili, simili, difficili da riconoscere, a volte potenti, ruvidi, densi, o monumentali come quella strada. Quella strada che collega Roma col Vaticano e che volutamente trasmette una rinnovata meraviglia a chi ci passa, o una rinnovata voglia di battaglia o di resa definitiva, che altro è quella strada se non un confine? Lei ormai ci viene tutti i giorni e lo sa, nessuno, anzi, la sa meglio di lei, Faggion Annarosa in Almiropulo, tornata Rosetta, la storia del confine e un giorno, a qualcuno la potrebbe anche raccontare.
- Si che ci credo, certo.
- Bene. Allora ascolti:
Venga riconosciuto grande e santo il Nome eccelso nel mondo che Egli ha creato e regni nel Suo dominio nella vita e nei giorni della casa di Israele, e sia tra breve e si dica amen. Sia il Nome eccelso in eterno benedetto, esaltato, glorificato, il Nome Santo, sia benedetto. E sia al di sopra di ogni benedizione, canto, venerazione che si possa mai pronunciare e si dica amen.”****
Rosetta si è persa ascoltando il suono di quelle parole, le sono scese due lacrime sentendo ballare davanti quel Nome maiuscolo ripetuto, quella parola, venerazione: la sacralità è universale, è dentro i lemmi e fra i sorrisi, negli sguardi, nella richiesta di vino della vecchia storta, in via della Conciliazione ma anche negli anfratti che circondano la Stazione Tiburtina, o negli aborti di periferie cementate e variopinte dove si ferma a fumare. La sacralità è nell’attenzione, nel cappuccino col cuore, nel rossore della ragazza. Ecco quello che non sopporta più in suo marito, l’aver abdicato, l’aver preferito gli oggetti alla voglia di guardare e capire. E’ proprio questo che la spinge ogni giorno a fare la sua parte per conoscere un pezzo di mondo più vasto , un pezzo di quella grande città che ha sempre subito dicendo sì a tutto, dicendo sì a ogni scelta anche non condivisa. Sorride alla ragazza, le viene di rispondere amen, ma lo pensa solo, lo ripete nella mente
Amen
Amen
Amen
Amen
e chiede se desidera un altro cappuccino, tornando alla realtà sentendosi ancora avvolta da quelle parole. Sapendo quanti amen tutti dovrebbero dire, ogni giorno. Quanti amen servirebbero a riempire gli istanti di disamore e poca pazienza, di piccole violenze e disattenzione..
-Molto volentieri, grazie. Lo bevono entrambe in silenzio. Un silenzio di quelli da non riempire, da non foderare, da non percepire minaccioso e invadente, un silenzio per riposare, di quelli leggeri. Un ologramma. Un fermo immagine perfetto.
Rosetta si alza.
-Spero di vederla anche domani, arrivederci
-A domani.


Francesca Mazzucato

...


* Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” Longanesi 2004


** Imre Kertész, “Liquidazione”, Feltrinelli 2005





FINE



Questo racconto è apparso in forma leggermente diversa nell'antologia Roma per le strade, Azimut 2007 ed è dedicato alla memoria dello scrittore ungherese Imre Kertész

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