PICCOLE AMNESIE FRA LA VITA E LA MORTE
NEI
PRESSI DI VIA DELLA CONCILIAZIONE, ROMA
ORA
IMPRECISATA DEL MATTINO
…pensai
noncurante con quell’infallibilità con la quale siamo soliti
fallire, con quella cecità risoluta, con quel modo in cui non
riconosciamo mai la continuità nell’attimo, la conseguenza del
caso, la collisione nell’incontro..
Imre Kertész
Imre Kertész
Arriva
in cucina scalza pestando briciole rimaste dalla sera precedente e
pensando piccole cose sconclusionate.
Si
sente uno spettro, uno strano clandestino salito a bordo in modo
avventuroso, a bordo non di una barca ma di un condominio
dignitoso in una delle migliori periferie romane, terzo piano con
terrazza, ma come ti sei sistemata bene pronunciato in coro
dalle amiche d’ infanzia invitate a volte, solo per mostrare, solo
per afferrarsi agli oggetti e nascondere dietro alla roba, a quelle
belle cose allineate e fatte vedere simulando orgoglio, quella
mancanza persistente, quel dolore indefinito e in fondo incompreso.
Una casa dove lei ha atteso i ritorni delle figlie e da poco anche
quelli del marito, dove ha atteso anche solo per attendere, che
qualcosa accadesse, che il tempo accelerasse all’ improvviso, con
bagliori catodici, qualche telefonata noiosa e due gocce di sambuca
come compagnia
(se
escludiamo le vene varicose e quel ponte che continua a cadere e il
dentista che continua a diradare gli appuntamenti). Solo due gocce,
non è mai stata persona capace di eccessi. Li ha spinti dentro,
deglutiti, silenziati, i sentimenti esagerati, le passioni, i
melodrammi. Li ha stipati dove non fossero indecenti alla vista, dove
potessero, in qualche modo, essere domati.
C’è
sempre quella luce, quella luce incredibile ad ottobre, quella luce
stratificata di storia, di glorie passate e di ingloriose vicende
presenti, che pare filigrana, che sa essere grandiosa, eccessiva, o
trasformarsi nella sottile supplica del cielo. Clandestina. Eppure è
la sua
casa: quei muri, quei centrini, quei quadri, quei libri mai letti,
quei cuscini etnici, quelle lampade di carta di riso, quelle
vetrinette adatte ad una esposizione ad uso
facciamo vedere il nostro benessere ai vicini,
quel televisore da un chilometro di pollici e gli altri tre sparsi
nelle stanze, i divani di pelle che costeggiano i muri formando una
elle perfetta, tutti
quegli
oggetti,
tutta
quella moltitudine di roba, è anche sua, la stordisce ricordarselo
ma è così. Un tempo gliene importava, un tempo lucidava le
vetrinette, lavava i centrini e si chiedeva quale fosse il prodotto
più indicato per pulire il divano. Adesso è quasi amica di quella
polvere che si deposita adagio senza risparmiare niente e mostrando
quanto andare fieri di possessi pesanti e ingombranti, destinati a
logorarsi e poi a rompersi, sia solo un’illusione: adesso le
importano molto meno, quasi niente. Si è svegliata presto e ha
programmato la sua giornata nella penombra dell’alba percependo i
respiri dei famigliari ancora addormentati e godendo della luce che
gradualmente inizia a filtrare dalla tapparella non del tutto
abbassata. Giornata da umore danzante, da voglie inimmaginabili, da
libertà mai ritenute possibili. Ha deciso di vedere davanti spianate
e rincorse e non più impedimenti. Si tratta solo di spostare il
punto di vista, un semplice cambiamento d’inquadratura, come al
cinema. Lo fanno al cinema, si può fare anche nella vita.
Modificare, grattare via il superfluo, mutare la prospettiva, aderire
ad altro. L’ha fatto. Tempo liberato dalle telefonate ai
carpentieri, dall’ enorme, dai silenzi da sostenere, dalle crepe
da riparare, dalle situazioni oblique da raddrizzare, dal dovuto,
dalle file dal macellaio per quella carne tenera che piace tanto al
marito, dal sovraccarico, dal confuso, dall’ utile, tempo da
riempire, ricucire, pitturare di stati d’animo incolti e selvaggi,
o solo pacati e silenziosi, dipende. Sorride alla giornata che si
delinea come si delineano adagio le bancarelle del mercato rionale,
fitto come possono essere fitti solo certi mercati rionali romani con
caciara di voci compresa. C’è la vecchia storta che raduna cocci
di cose e le stende su un lenzuolo per vendere quello che può,
quello che riesce, quello che possiede e le permette di tirare
malamente e poveramente avanti, quelle carabattole logore, quasi
niente. La conosce, tutti la conoscono. Prima di andare in centro si
fermerà da lei, le porterà un contenitore di zuppa calda avanzata
ieri sera, scambierà due chiacchiere seguendo i pensieri sconnessi
della vecchia, pensieri che ogni tanto prendono direzioni dove
nessuno la può raggiungere o seguire, ma a lei non importa. Si
fermerà a gambe incrociate accanto al lenzuolo osservando la miriade
di oggetti sparsi che la donna storta offre come tesori. Le comprerà
qualcosa, lo fa sempre il giorno del mercato. Un bottone lucido color
crema, una conchiglia sbrecciata, una medaglia pesante con simboli
indecifrabili, una tazzina da caffè senza piattino, sono belle, non
si ricorda mai dove le ha trovate, dice che sono di un'anziana
marchesa, poi si dimentica e dice altro. Le comprerà magari un
vecchio rossetto, un libro con le pagine – se ancora ci sono-
ingiallite e macchiate. Ne ha già presi tre o quattro. Le piace
pensare che siano passati per molte mani i libri della vecchia
storta, a volte sono edizioni in italiano, a volte in francese, a
volte in lingue che lei non conosce, non importa: le piace averli,
nasconderli nei cassetti perché il marito non brontoli dicendo che
spende i soldi in cose inutili.
Cose
inutili.
Che definizione violenta, risuona già come una condanna senza prova
d’appello, se compri o raccogli cose inutili, in fondo sei inutile
anche
tu e hai tempo da perdere e non tempo per guadagnare come le persone
produttive e concrete. Suo marito è così, produttivo, concreto,
pratico. Lei non è così ma per troppo tempo ha subito la sottile
vergogna di questa non manifesta sensazione di inutilità. Ha deciso
che era troppo. Troppo quel darsi da fare per nascondere un
inesistente pezzo mancante. Adesso a suo marito pensa in un modo che
un po’ la spaventa e un po’ la diverte,
le par di vederlo da una chilometrica distanza. Fiero delle sue
certezze, legato al pochissimo che esalta e che tiene stretto come un
tubero alla terra smossa; non si impegna in quello che non serve, non
ne ha la necessità; non si imbarca per partire, si lascia
trasportare, come una cicca di sigaretta nello scolo di una fogna; il
mediocre nasce perfettibile in potenza, ma cresce persuaso di aver
già dato il meglio di sé poiché nato,
e vive con lentezza, naturale e molle. Parla di utile e di inutile e
si impone, si impunta, si irrita. L’utile è la sua cifra per
capire, altre modalità sono escluse, roba da buttare, buona per
buffoni, poveracci, saltimbanchi e nullafacenti. Per lei non sono
inutili i cocci di cose che la vecchia sistema al mercato, in un
angolo nascosto dal resto, su un lenzuolo un po’ giallo (un tempo
di certo pezzo forte di un corredo, un tempo ormai in frantumi come i
ricordi della donna), nella parte di parco che le bancarelle non
vogliono perché scomodo e sporco. Per lei sono ritagli di storie e
tracce di vite alle quali ha deciso di prestare attenzione. Ha smesso
di affannarsi ,si concede tempo, momenti tranquilli, dei piccoli
niente di giornata solo sua, lascia scorrere un tempo- non tempo,
malleabile e fluido. Non condiviso, non assegnato. Un tempo sommesso
ed eccitante che le si snoda davanti carico di immense possibilità,
possibili tracciati, amnesie e ricordi che si avvinghiano per
liberarsi a piacere come stelle filanti durante una rincorsa sul
prato.
Stare con la vecchia storta che srotola oggetti e litanie.
Raggiungere il centro con il primo autobus. Scendere un po’ prima,
fumare una sigaretta o due fra gli aborti di cemento della prima
periferia romana.
Rosetta, la
chiamavano le amiche durante lo struscio nel minuscolo centro di un
paese roccioso a picco sul mare , un paese abbandonato piangendo
finte lacrime di gioia, abbandonato con valige e corredo anni prima
per fare un buon matrimonio, nella capitale è’ andata la mia
figlia maggiore, ma ha sposato bene ve lo assicuro. Da anni
nessuno la chiama Rosetta ma quando esce e si concede ai suoi ritmi,
dimentica il resto e ritorna ragazza . Fuma fra i parallelepipedi di
cemento e si sente solo Rosetta. La bobina si riavvolge con garbata e
felina lentezza, il tempo si blocca, permette una tregua, uno stacco.
Rosetta – ricci
rossi, Rosetta- scavalca muri, Rosetta che ha baciato in bocca un
ragazzo prima delle sue amiche ( non era vero ma misero in giro la
voce, lei non negò) Si sente dentro un flashback dal sapore di
vaniglia, la gusta e la lecca, la vuole tutta, non ci rinuncia perché
quel sapore la fa sentire viva, tutta la polvere accatastata in anni
di silenzioso annullamento viene eliminata, si assorbe.
Cambio
di inquadratura.
E’
arrivata: un piccolo bar nei pressi della grande strada che collega
Roma con lo stato Vaticano, strada che fa sempre un certo effetto
inquadrando scenograficamente la Basilica. Ha camminato un po’ e
adesso è seduta a uno dei tavolini esterni. E’ di formica
rossa, piccolo, traballante e anche unto, le hanno sempre detto che
la formica non è fine e scegliendo le cucine nei mobilifici, è
meglio preferire il legno e l’acciaio per un piano di lavoro adatto
e funzionale, la
formica mai
ma lei ha smesso di visitare mobilifici, di fare la coda per
informazioni insieme a famigliole per bene, tutte giuste, sudate,
affannate in assetto di lotta per afferrare la buona occasione.
Adesso che quel sapore di sconfitta che provava accompagnando il
marito a guardare credenze e tinelli, a discutere di
videoregistratori, condizionatori, controsoffitti, porte blindate,
adesso che tutto quel cercare e arraffare è dietro le spalle,
adesso che quel sapore di scadenze da rispettare come le rate, la
cessione del quinto, il prestito in banca e la cambiale è un onere
evaporato e lontano, la formica le piace, pensa che sia comoda, in
fondo, e poi la fa sentire libera il solo fatto di sedere lì, da
sola, pensando che ci andrà dopo a fare la spesa, solo quando potrà.
Pensando che ha già fatto davvero tanto: ha trovato dalla vecchia
storta un braccialetto con pietre colorate dove riesce a specchiare
il viso e che trova bellissimo. Le ha lasciato zuppa, zucchetti
fritti e frutta, pane e due cartoni di latte ( la vecchia l’ha
guardata con gli occhi turchesi inumiditi dicendo: la prossima volta
anche il vino). Ci andrà dopo in tintoria a ritirare i vestiti
della figlia maggiore. Quella figlia che ama moltissimo e che un po’
le somiglia, la figlia più piccola costata uno squarcio nel ventre e
quindici giorni di ospedale, in bilico fra vita e morte, giorni di
oblio, di paure sedate, di pareti bianche, di minestre diluite, di
caffè disgustoso, difficile deambulazione e odore di disinfettante
perennemente nelle narici, giorni ormai remoti, appartenuti a
Faggion Annarosa in Almiropulo e non di Rosetta, che ne sapeva
Rosetta di tagli, squarci, cicatrici deturpanti, di grandi camerate
di ospedale, di disinfettante?
Diventi
madre, paghi il prezzo, puzza e deturpa. Essere madre è meraviglioso
ma è anche un ergastolo senza tregua. La figlia chiede, urla chiede
ancora. Anche questa volta si è raccomandata con insistenza, i
vestiti, mamma, mi servono. Devi andarci, capito? Domani. Ok, le ha
risposto e ha preso la ricevuta. Vuole tutto e subito sua figlia
maggiore prima
la carriera, per ora resto con voi.
La piccola è a Londra, ogni tanto la chiama, le manca ma sa che
quello che fa è buono, l’addestrerà a vivere consapevole e dritta
ma la sua assenza la turba. C’è l’altra col suo continuo
pretendere. Quella dannata ricevuta, eccola. E’ nella borsa insieme
al suo taccuino, al rossetto, alle sigarette per la periferia, a un
fiore che ha strappato raggiungendo via della Conciliazione , al
portafoglio, al cellulare( spento) e a tante altre cose. Ci andrà ma
non ora in tintoria, all’ Esselunga e anche dal tabacchino per il
Gratta e Vinci da portare al marito.
Dopo.
Chissà. Adesso tutto le sembra fuori fuoco e parte di una storia
diversa, di una vita non sua. Non ci pensa. Fermi i pensieri e cambio
di inquadratura. E’ proprio entrata in un film, Rosetta. Ha la
città davanti, vuole guardare, e respirare, respirare e guardare. Ha
preso un cappuccino e il barista con il cacao ha disegnato un cuore
tutto storto. Ogni tanto disegna una faccia che ride e la signora
Annarosa lo considera un segno di buon auspicio. Sa che dopo, dopo
aver bevuto lentamente sporcandosi le labbra di schiuma, dopo aver
osservato la gente e spiato discorsi, espressioni e vestiti, si
incamminerà fino alla basilica sentendosi piccola e strana in tutta
la monumentalità di via della Conciliazione, ma anche libera, e
soprattutto viva. Non sapeva che esistessero dei luoghi dell’anima,
pensava fosse una sciocchezza, e invece. Quei luoghi che ti fanno
dimenticare, per un minimo intervallo di tempi- frattempi cuciti
insieme chi sei e da dove arrivi. Che ti fanno tornare la Rosetta che
si sbucciava le ginocchia nel sagrato della parrocchia e che non ci
pensava a quella città enorme, caotica e piena di luce dove abita
da talmente tanti anni che le si sono ingrigiti i capelli e la
parrucchiera Tiziana li copre di castano da signora. Era una ragazza,
ha socchiuso le palpebre ed è invecchiata. Tutta lì, la vita, una
cosa così rapida, perfino irrilevante. Non immaginava quanto
contasse l’istante e adesso lo vive, lo assorbe e lo annusa. In
quel luogo beve il cappuccino sulla formica, amalgamato a ricordi che
sfrecciano senza via di fuga, tutto torna e sembra che ci sia un
filo, che le cose possano tenersi insieme con una certa leggerezza,
anche se non dura quella sensazione di consapevolezza trasparente.
Appoggia il fardello per qualche momento, è già tanto. Che
architettura, che senso di celebrazione. Insieme al cappuccino mangia
una brioche ben farcita di crema gialla e morbida. Accanto due donne
parlano fitto. Hanno un drink che non toccano ma mangiano una
patatina dietro l’altra. Si somigliano poco, ma hanno un modo
simile di gesticolare e i tratti del naso e degli occhi, quelli sono
uguali, Rosetta non si sbaglia.
-E
se l'hospice...
-Se l'hospice?
-Se l'hospice?
-Hai
detto veniamo al punto e questo è il punto.
-Infatti.
Se l’hospice?
-Se fosse in realtà una forma di nuovo lager, un tentativo di estrema recinzione del morire?
- Ma che idea, andiamo, ma che pensieri ti vengono.
-Lo so, è assurdo. O meglio appare assurdo. Ma è un luogo adatto, creato all’apparenza per un fatto di servizio. In realtà per NOI. Per tutti. Non vedi? Non ti guardi attorno? Si cerca così affannosamente questo morire asettico, silenzioso, carbonaro, un morire da assenti, da lontani, diversi e altri da quelli belli e ordinati, puliti, con mascara e belletto, da quelli che sono buoni e giusti, che vivono ancora- provvisoriamente, ma ancora, che seguono mode e modi, tendenze varie, tutte le strade debordanti eccesso dei codici a barre, delle merci e della saturazione quotidiana per non pensare. Il morire per tutto questo è un disturbo, deve essere "rapido e indolore", deve non intralciare, deve essere un morire abbellito, stordito, sedato, un morire lontano da dove si spende, da dove si riempiono carrelli, da dove si mangia.
- Questa è follia, è una visione delirante di cui dovresti vergognarti. L'hospice è un segno di civiltà.
-Sì, forse. Questa civiltà- candeggina, questa sbianchettante civiltà che si siede alla tavola enorme di cibo - merci-posti al sole- danaro - affari- sputtanate pubbliche- esibizioni pubiche -prostituzione conveniente- oboli di palazzinari e banchetta, si siede a tavola chi è fortunato, gli altri spingono, spintonano, urlano, si fanno spazio a qualsiasi costo e si accontentano di spolpare qualche osso, lanciato dai più, beh, generosi? O dai già sazi. E quella sazietà impedisce di pensare che quella cosa da non nominare, la M***E, quella cosa che ci si tocca, si fanno gli scongiuri, si incrociano le dita, quella cosa lì arriverà per tutti, è solo una questione di tempo.
-Dici cose scontate e retoriche, lo sanno tutti, e nessuno vuole..
-Nessuno apertamente dice di voler negare questo, e come potrebbe? Ma nei fatti la grande negazione avviene. La clessidra procede, la speranza di prolungare il vorace restare su un pianeta razziato a prendere e cintare ogni cosa che possa essere incartata con un enorme post it dalla evidente scritta IO/MIO stampata sopra, quella speranza fa fatica a frantumarsi, a diventare impalpabile fluire, a diventare un niente di fronte al sorgere e cessare di ogni cosa: per questo gli hospice con queste cazzate, le camere con il nome dei venti, che cosa gliene frega, al morente, al terminale, di come si chiama la sua stanza? Se è in quella grecale o magari è stato così fortunato ed è finito nell’ ambita libeccio?
-Preferiresti dei lazzaretti? Della gente abbandonata a se stessa e alla violenza della malattia, senza sedazione, senza controllo, senza nutrizione?
-Non ho detto questo e non preferisco niente. Ma proprio niente. Penso che si tratti di morte congelata. Di una morte Lidl. Rottamiamo in fretta e soprattutto con saggia rapidità. Non a caso negli hospice non è necessario l'oncologo.
- Non è necessario l'oncologo?
-No, sono quasi tutti anestesisti i medici che lavorano negli hospice, anestesisti ovvero pronti all'ANESTESIA con la maiuscola, quella finale.
- Ma dai, ci sono, a volte, anche degli oncologi.
- A volte, quelli sfigati che non hanno ancora un posto fisso da qualche parte e fanno i terminalisti per sbarcare il lunario. Con i morenti per guadagnarsi da vivere, quale meraviglioso ossimoro.
-Meraviglioso? Sbarcare il lunario? Il tuo linguaggio è indecente.
- E' vero e me ne faccio un vanto. Indecente come appare la morte al sistema che ne ha progettato il suo nascondimento.
-Poi parli di oncologi, ma ci sono malati terminali di vario tipo.
-Soprattutto malati oncologici, informati, please.
- Inoltre tu non sei neanche medico, perché pensi di aver diritto di parlare di queste cose?- L’oncologia medica è un fatto culturale. Un fondamentale fatto culturale. Parole di un oncologo. E' la branca della medicina più moderna, e quella che maggiormente ha a che fare con la terapia genica e gli anticorpi monoclonali. Il tema oncologico investe vari aspetti contenutistici, anche creativi se vogliamo. Semantici di sicuro.
-Creativi?
-Si, mi vedi pazza, ma anche creativi. Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra*, malato, mentre veniva curato a New York chiamava "la ragna", l'apparecchio per la radioterapia, l'acceleratore lineare. Domandava con insistenza ai suoi "aggiustatori", i medici, perché proliferava una tale terminologia guerresca, di battaglia, di assedio, di combattimento a proposito del male( "vincerò la battaglia", "lo sconfiggeremo".) Si poneva queste questioni che sembrano sciocchezze ma sono cruciali. Questo è "creativo". La questione semantica poi è importantissima. Il cancro è sempre curabile, non sempre guaribile, come altre malattie. All'inizio si tratta di malattie diverse, alla fine, giunti al capolinea, le strade confluiscono in una situazione simile, terminale.
-Quindi?
-Quindi invece di inaugurare continuamente lazzaretti del contemporaneo con le camere dai bei nomi dove si resta un tempo rapido, colloso, mal scandito, strano, destabilizzante e lisergico, perché non lasciare la gente in pace, a casa?
-Perché a volte non ci sono parenti, oppure i parenti..
-Oppure i parenti non vogliono il loro caro/cara. Dicono che non ce la fanno, preferiscono che muoia altrove, che non sporchi, che non lasci per troppo tempo l'odore e l'impronta della morte nelle loro ordinate case Ikea, nei loro tinelli, nelle loro vetrinette con liquori assortiti.
-Mah.. forse intendi riferirti a me vero?
- Oh no. Non mi riferisco a niente. Per questo e su questo io non ho risposte e neanche le voglio trovare. Mi chiedo solo, è possibile che nell' hospice, nell'idea che sta dietro all' hospice ci sia il tentativo e la volontà di una nuova recinzione, di una nuova elaborata forma di segregazione?
Dico solo questo poi faccio un inchino agli astanti non plaudenti e mi tolgo di torno.
-Se fosse in realtà una forma di nuovo lager, un tentativo di estrema recinzione del morire?
- Ma che idea, andiamo, ma che pensieri ti vengono.
-Lo so, è assurdo. O meglio appare assurdo. Ma è un luogo adatto, creato all’apparenza per un fatto di servizio. In realtà per NOI. Per tutti. Non vedi? Non ti guardi attorno? Si cerca così affannosamente questo morire asettico, silenzioso, carbonaro, un morire da assenti, da lontani, diversi e altri da quelli belli e ordinati, puliti, con mascara e belletto, da quelli che sono buoni e giusti, che vivono ancora- provvisoriamente, ma ancora, che seguono mode e modi, tendenze varie, tutte le strade debordanti eccesso dei codici a barre, delle merci e della saturazione quotidiana per non pensare. Il morire per tutto questo è un disturbo, deve essere "rapido e indolore", deve non intralciare, deve essere un morire abbellito, stordito, sedato, un morire lontano da dove si spende, da dove si riempiono carrelli, da dove si mangia.
- Questa è follia, è una visione delirante di cui dovresti vergognarti. L'hospice è un segno di civiltà.
-Sì, forse. Questa civiltà- candeggina, questa sbianchettante civiltà che si siede alla tavola enorme di cibo - merci-posti al sole- danaro - affari- sputtanate pubbliche- esibizioni pubiche -prostituzione conveniente- oboli di palazzinari e banchetta, si siede a tavola chi è fortunato, gli altri spingono, spintonano, urlano, si fanno spazio a qualsiasi costo e si accontentano di spolpare qualche osso, lanciato dai più, beh, generosi? O dai già sazi. E quella sazietà impedisce di pensare che quella cosa da non nominare, la M***E, quella cosa che ci si tocca, si fanno gli scongiuri, si incrociano le dita, quella cosa lì arriverà per tutti, è solo una questione di tempo.
-Dici cose scontate e retoriche, lo sanno tutti, e nessuno vuole..
-Nessuno apertamente dice di voler negare questo, e come potrebbe? Ma nei fatti la grande negazione avviene. La clessidra procede, la speranza di prolungare il vorace restare su un pianeta razziato a prendere e cintare ogni cosa che possa essere incartata con un enorme post it dalla evidente scritta IO/MIO stampata sopra, quella speranza fa fatica a frantumarsi, a diventare impalpabile fluire, a diventare un niente di fronte al sorgere e cessare di ogni cosa: per questo gli hospice con queste cazzate, le camere con il nome dei venti, che cosa gliene frega, al morente, al terminale, di come si chiama la sua stanza? Se è in quella grecale o magari è stato così fortunato ed è finito nell’ ambita libeccio?
-Preferiresti dei lazzaretti? Della gente abbandonata a se stessa e alla violenza della malattia, senza sedazione, senza controllo, senza nutrizione?
-Non ho detto questo e non preferisco niente. Ma proprio niente. Penso che si tratti di morte congelata. Di una morte Lidl. Rottamiamo in fretta e soprattutto con saggia rapidità. Non a caso negli hospice non è necessario l'oncologo.
- Non è necessario l'oncologo?
-No, sono quasi tutti anestesisti i medici che lavorano negli hospice, anestesisti ovvero pronti all'ANESTESIA con la maiuscola, quella finale.
- Ma dai, ci sono, a volte, anche degli oncologi.
- A volte, quelli sfigati che non hanno ancora un posto fisso da qualche parte e fanno i terminalisti per sbarcare il lunario. Con i morenti per guadagnarsi da vivere, quale meraviglioso ossimoro.
-Meraviglioso? Sbarcare il lunario? Il tuo linguaggio è indecente.
- E' vero e me ne faccio un vanto. Indecente come appare la morte al sistema che ne ha progettato il suo nascondimento.
-Poi parli di oncologi, ma ci sono malati terminali di vario tipo.
-Soprattutto malati oncologici, informati, please.
- Inoltre tu non sei neanche medico, perché pensi di aver diritto di parlare di queste cose?- L’oncologia medica è un fatto culturale. Un fondamentale fatto culturale. Parole di un oncologo. E' la branca della medicina più moderna, e quella che maggiormente ha a che fare con la terapia genica e gli anticorpi monoclonali. Il tema oncologico investe vari aspetti contenutistici, anche creativi se vogliamo. Semantici di sicuro.
-Creativi?
-Si, mi vedi pazza, ma anche creativi. Tiziano Terzani in Un altro giro di giostra*, malato, mentre veniva curato a New York chiamava "la ragna", l'apparecchio per la radioterapia, l'acceleratore lineare. Domandava con insistenza ai suoi "aggiustatori", i medici, perché proliferava una tale terminologia guerresca, di battaglia, di assedio, di combattimento a proposito del male( "vincerò la battaglia", "lo sconfiggeremo".) Si poneva queste questioni che sembrano sciocchezze ma sono cruciali. Questo è "creativo". La questione semantica poi è importantissima. Il cancro è sempre curabile, non sempre guaribile, come altre malattie. All'inizio si tratta di malattie diverse, alla fine, giunti al capolinea, le strade confluiscono in una situazione simile, terminale.
-Quindi?
-Quindi invece di inaugurare continuamente lazzaretti del contemporaneo con le camere dai bei nomi dove si resta un tempo rapido, colloso, mal scandito, strano, destabilizzante e lisergico, perché non lasciare la gente in pace, a casa?
-Perché a volte non ci sono parenti, oppure i parenti..
-Oppure i parenti non vogliono il loro caro/cara. Dicono che non ce la fanno, preferiscono che muoia altrove, che non sporchi, che non lasci per troppo tempo l'odore e l'impronta della morte nelle loro ordinate case Ikea, nei loro tinelli, nelle loro vetrinette con liquori assortiti.
-Mah.. forse intendi riferirti a me vero?
- Oh no. Non mi riferisco a niente. Per questo e su questo io non ho risposte e neanche le voglio trovare. Mi chiedo solo, è possibile che nell' hospice, nell'idea che sta dietro all' hospice ci sia il tentativo e la volontà di una nuova recinzione, di una nuova elaborata forma di segregazione?
Dico solo questo poi faccio un inchino agli astanti non plaudenti e mi tolgo di torno.
-Brava,
vai pure, dovevamo parlare di nostra madre, dei suoi problemi e come
al solito hai monopolizzato la conversazione. Chi è il tuo ultimo
amante, un oncologo? Vai, lasciami sola a pensare alla mamma che non
ne ha più per molto cosa credi? Lasciami qui a sentirmi cattiva
perché ti ho detto solo che in casa mia c’è poco spazio. Arriverò
alla Basilica e guardare la sua maestosa architettura mi darà molto
più conforto delle tue parole, sciocca irresponsabile. Non ci sei
mai, TU,
nei momenti del bisogno, sai solo blaterare assurdità.
La
ragazza che si è alzata ha allungato il passo, ne vede la sagoma
vestita di nero e i capelli arruffati che si allontana rapidissima,
sa che non sente più niente ma l’altra parla lo stesso, forse
parla a tutti e a nessuno in particolare, parla perché ha bisogno di
dirlo, di tirarlo fuori questo dolore pesante che le raspa le
viscere, di fronte al quale si sente solitaria e impotente e la
signora Faggion Annarosa in Almiropulo, sa bene cosa voglia dire la
solitudine nel dolore, davanti alle decisioni difficili da prendere.
Lo smarrimento e il senso di capogiro provocato da gente che non
vuole capire o fa finta: per comodità o incapacità. Ordina un
altro cappuccino e questa volta, sulla schiuma c’è un piccolo
gabbiano di cioccolato e sul piattino trova un cioccolatino di menta.
Il barista le fa l’occhietto, riesce a vederlo attraverso il vetro
anche se è seduta fuori.
Passano
due uomini. Arrivano da un negozio di souvenir, foto e calendari di
vai Della Conciliazione, riconosce il sacchetto.
-Io
lo so che mi hai portato a fare questa passeggiata perché….
-Perché
sono tuo amico e voglio starti vicino.
-
Vicino. Vicini. Lo so che hai buone intenzioni, ma non puoi fare
niente, io sono un appestato, nessuno si può avvicinare sul serio,
sono dannato, infelice e in ogni momento le mie riflessioni sono
cupe.
-Sono
qui per ascoltarti.
-Sai,
abbiamo costeggiato luoghi sacri, visto la Basilica, bevuto qualcosa
e non puoi immaginare cosa mi risuonava nella mente, insistente,
ossessivo.
-Cosa?
-Questo:”Morire è facile/ la vita è un immenso campo di concentramento/ che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra/ e che l’uomo ha poi sviluppato/sino a farlo divenire un campo di sterminio per l’uomo/Suicidarsi corrisponde/ a fregare quelli che stanno di guardia../**
-Cosa?
-Questo:”Morire è facile/ la vita è un immenso campo di concentramento/ che Dio ha messo su per gli uomini sulla terra/ e che l’uomo ha poi sviluppato/sino a farlo divenire un campo di sterminio per l’uomo/Suicidarsi corrisponde/ a fregare quelli che stanno di guardia../**
-
Ti prego amico mio, lo so che sei depresso in questo periodo, ma io
so come puoi uscirne, devi solo..
Vanno
via. Ha udito solo un tassello del loro dialogo, la signora Annarosa
è turbata, vorrebbe ma non riesce a udire la conclusione, forse non
c’è conclusione, forse il discorso dei due uomini è collegato,
dipendente, intrecciato al discorso che facevano le due donne, prima
che quella infuocata di passione come un soldato in battaglia si
alzasse di scatto abbandonando la sorella che è ancora lì e beve
silenziosa un nuovo drink guardando un orizzonte lontano, trapassando
con gli occhi edifici e persone
-Ci
sono ancora brioche?
-
Certo.
-Oh
bene, me ne mette sei in un sacchetto? Porto la colazione alle
ragazze della casa famiglia.
-Quelle
che stanno con le suorine?
-Si quelle.
-Si quelle.
Ci
sono gesti che nessuno può testimoniare davvero, pensa Rosetta
distratta dalla ragazza con l’ombelico in vista e la faccia tonda,
appena entrata, frettolosa, sorridente e debordante di vita e di
meraviglia che prende le brioche e anche qualche focaccia al
prosciutto per fare una sorpresa, porta la colazione in un posto che
conosce anche lei, vicino a via della Conciliazione. C’è qualcosa
di luminoso nella sua espressione, qualcosa di aggraziato nei suoi
movimenti.
Andrebbe
conservato, fissato.
Cosa
rimarrà, altrimenti? Cosa rimane delle nostre minuscole speranze,
delle varie amnesie, dei gesti d’amore ( rari, c’è così poco
amore negli istanti)? Cosa rimarrà delle occasioni perdute, dei
dolori e dei traguardi? Dei centrini, della vecchia storta, dei
discorsi spiati, di quei cappuccini decorati?
Annarosa
trascorre seduta altro tempo.
C’è
una certa ora in cui arrivano gli studenti e da qualche giorno ne ha
individuata una che ha definito La Studiosa Meticolosa. Sta
sempre scostata dagli altri, si siede non lontano da lei, prende
appunti, è carica di libri, meticolosa e concentrata. Quel giorno
arriva, stesso cappuccino di Rosetta, alza gli occhi dal grande
quaderno con le anelle, le sorride.
-Ciao
-Salve
signora.
-Sai,
perdona la mia invadenza, ma ti ho già vista qui: devi essere
proprio brava. Scusa, dovrei farmi gli affari miei ma a me piace
osservare le persone e tu sei graziosa e sempre così concentrata,
così attenta.
-Grazie. Mi fa piacere questo complimento.
-Grazie. Mi fa piacere questo complimento.
La
Studiosa Meticolosa arrossisce. Rosetta pensa a sua figlia, a quanto
tempo è che non arrossisce più. Che sbraita, pretende, si infuria,
mostra impazienza e fastidio. Pensa che vorrebbe portarsi a casa
quella ragazza, fare a cambio, non per sempre, solo per un affido
temporaneo. Ha le lentiggini e la pelle talmente chiara che sembra
possibile vedere il reticolo delle vene. E’ minuta, quasi
trasparente.
-Di
che cosa ti occupi?
-Studio Storia dell’Ebraismo a Lettere e Filosofia.
-Studio Storia dell’Ebraismo a Lettere e Filosofia.
-Storia
dell’Ebraismo?
-
Sì. Mi voglio specializzare in Storia delle Religioni, ma l’Ebraismo
è il mio grande interesse. Sto studiando la Torah. Sono tornata da
poco da Venezia, dove ho visitato il Ghetto, la Sinagoga, il Museo.
Lo sa che il ghetto ebraico a Venezia è il più antico del mondo?***
-
Davvero?
- Si. Si trova nel sestriere di Cannaregio.
- Si. Si trova nel sestriere di Cannaregio.
-
Mi piacerebbe tanto andare a Venezia. Sono passati tanti anni…
porto dietro solo ricordi legati a luoghi comuni, immagini
stereotipate.
-
Ci torni allora, e vada al Ghetto. La stupirà. Fu stabilito nel
1516: A Venezia ci sono 4 Sinagoghe di dimensioni differenti, tre
sono Ashkenazi e una Sefardita. E’ l’unica che ho potuto
visitare, veramente spettacolare con un tocco bizantino e uno
veneziano.
-
Come mai questo interesse?
-
Mia madre è ebrea, mio padre no. Ci tenevo a recuperare le mie
radici. Venga a vedere di che cosa mi sto occupando adesso.
Rosetta
si siede accanto alla ragazza. Al paese, il parroco diceva sempre che
gli ebrei avevano ucciso Gesù
ma lei non aveva mai creduto al parroco, a quel suo
parlare enfatico e spaventoso e le pareva idiota affermare che Gesù
era figlio di Dio e che potesse comunque essere ucciso. Quella
religione che le avevano insegnato da bambina era un insieme di
confusione, una matassa senza capo ne coda che non aveva mai
riguardato la sua vita. Un conto era il sacro.
Il
sacro era qualcosa di più grande, di denso e comprensibile. Si
poteva percepire, capire.
-Vede,
sto studiando delle preghiere ebraiche e mi piace venire qui,
piuttosto che fermarmi ad ammuffire in una biblioteca. Qui sento
l’imponenza del luogo, la quiete e la bellezza. Tutto questo mi
aiuta. Legga pure se vuole.
Rosetta
guarda, un po’ tremante, intimidita.
-Meglio
se mi spieghi.
-Vede,
si tratta del Kaddish. Forse ne ha già sentito parlare.
-No,
eh.. sai, non so molte cose io.( Vorrebbe dirle vengo qui per questo,
non credere ho una certa età ma sto riacchiappando il mondo che mi è
sempre sfuggito, sto cercando di imparare un pochino ogni giorno,
vorrebbe dirlo a quella bella ragazza dall’aria meticolosa e seria,
ma non lo dice. Si vergogna. Le sorride)
-
Non importa. Il Kaddish, in aramaico Santificazione,
è una delle più antiche preghiere ebraiche. La parola designa in
realtà un insieme di preghiere, tra loro correlate e spesso unite
nella liturgia giornaliera, i Kaddishim.
-I
..cosa ?
-I Kaddishim, che è il plurale di Kaddish. Sono quattro. Il Kaddish vero e proprio, Ytgadal, il Kaddish Yatom, il Kaddish Titkabal e il Kaddish Al Yisrael. Pensi che sono preghiere molto belle, scritte in lingua caldaica tarda.
-I Kaddishim, che è il plurale di Kaddish. Sono quattro. Il Kaddish vero e proprio, Ytgadal, il Kaddish Yatom, il Kaddish Titkabal e il Kaddish Al Yisrael. Pensi che sono preghiere molto belle, scritte in lingua caldaica tarda.
-Davvero?
-Sì,
sono bellissime, aspetti che gliene leggo una, tanto, lei
probabilmente non è ebrea ma non crede, signora che la sacralità in
realtà sia universale? Che trascenda le singole fedi e che le parole
che la esprimono siano comunque importanti? Abbiano dentro una musica
e una potenza dovuta alla devozione delle persone?
Lo crede eccome Rosetta, crede nel sacro, crede in questo legame universale. E’ tutto collegato.
Lo crede eccome Rosetta, crede nel sacro, crede in questo legame universale. E’ tutto collegato.
Ci
ha pensato spesso a un’enorme circolarità di tutti i discorsi, la
signora Almiropulo, a una tela che si tesse e che si disfa, e le
amnesie sono i buchi, gli sfilacciamenti, le frange, mentre quello
che si ricorda, quello che ci si scambia sono le parole , l’orlato
sono i ponti e i confini fra la vita e la morte, a volte
impercettibili, confondibili, simili, difficili da riconoscere, a
volte potenti, ruvidi, densi, o monumentali come quella strada.
Quella strada che collega Roma col Vaticano e che volutamente
trasmette una rinnovata meraviglia a chi ci passa, o una rinnovata
voglia di battaglia o di resa definitiva, che altro è quella strada
se non un confine? Lei ormai ci viene tutti i giorni e lo sa,
nessuno, anzi, la sa meglio di lei, Faggion Annarosa in Almiropulo,
tornata Rosetta, la storia del confine e un giorno, a qualcuno la
potrebbe anche raccontare.
-
Si che ci credo, certo.
-
Bene. Allora ascolti:
”
Venga
riconosciuto grande e santo il Nome eccelso nel mondo che Egli ha
creato e regni nel Suo dominio nella vita e nei giorni della casa di
Israele, e sia tra breve e si dica amen. Sia il Nome eccelso in
eterno benedetto, esaltato, glorificato, il Nome Santo, sia
benedetto. E sia al di sopra di ogni benedizione, canto, venerazione
che si possa mai pronunciare e si dica amen.”****
Rosetta
si è persa ascoltando il suono di quelle parole, le sono scese due
lacrime sentendo ballare davanti quel Nome maiuscolo ripetuto, quella
parola, venerazione: la sacralità è universale, è dentro i lemmi
e fra i sorrisi, negli sguardi, nella richiesta di vino della
vecchia storta, in via della Conciliazione ma anche negli anfratti
che circondano la Stazione Tiburtina, o negli aborti di periferie
cementate e variopinte dove si ferma a fumare. La sacralità è
nell’attenzione, nel cappuccino col cuore, nel rossore della
ragazza. Ecco quello che non sopporta più in suo marito, l’aver
abdicato, l’aver preferito gli oggetti alla voglia di guardare e
capire. E’ proprio questo che la spinge ogni giorno a fare la sua
parte per conoscere un pezzo di mondo più vasto , un pezzo di quella
grande città che ha sempre subito dicendo sì a tutto, dicendo sì a
ogni scelta anche non condivisa. Sorride alla ragazza, le viene di
rispondere amen, ma lo pensa solo, lo ripete nella mente
Amen
Amen
Amen
Amen
e
chiede se desidera un altro cappuccino, tornando alla realtà
sentendosi ancora avvolta da quelle parole. Sapendo quanti amen tutti
dovrebbero dire, ogni giorno. Quanti amen servirebbero a riempire gli
istanti di disamore e poca pazienza, di piccole violenze e
disattenzione..
-Molto
volentieri, grazie. Lo bevono entrambe in silenzio. Un silenzio di
quelli da non riempire, da non foderare, da non percepire minaccioso
e invadente, un silenzio per riposare, di quelli leggeri. Un
ologramma. Un fermo immagine perfetto.
Rosetta
si alza.
-Spero
di vederla anche domani, arrivederci
-A
domani.
Francesca
Mazzucato
…...
*
Tiziano Terzani “Un altro giro di giostra” Longanesi 2004
**
Imre Kertész, “Liquidazione”, Feltrinelli 2005
FINE
Questo racconto è apparso in forma leggermente diversa nell'antologia Roma per le strade, Azimut 2007 ed è dedicato alla memoria dello scrittore ungherese Imre Kertész
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