L'arte del mentire di Michela de Mattio
Foto di Camilla Coppola
L’ARTE
DEL MENTIRE
La prima
volta che lo notai, stava appoggiato al muro nel patio dello studio legale. Teneva
una mano davanti all’occhio destro e mi osservava.
Da quel
giorno venne ogni mattina per due settimane consecutive. Lo rincontravo la sera
quando tornavo a casa. Presi a salutarlo con un cenno del capo.
Un
pomeriggio lo trovai seduto nella sala riunioni.
Lo feci
accomodare nel mio studio. Si chiavava Davide Porta e quello fu il nostro primo
colloquio. Si sedette sulla sedia avendo cura di mantenere la schiena dritta.
Lo scrutai. Una quarantina d’anni, aveva l’aspetto di un poliziotto. Capelli
tagliati a spazzola, mascella squadrata, fisico da palestrato. Indossava una
camicia sbottonata sul collo e una cravatta mal annodata. La fronte aggrottata,
la voce roca di chi fuma troppo. Con la mano ferma a coprire l'occhio destro mi disse
di essere finito nel mirino della mafia russa. Era a conoscenza di qualcosa che
loro volevano carpirgli.
Tirò su un
paio di volte con il naso dilatando le narici. «Mi stanno dando la caccia,
capisce?»
«Non troppo»,
risposi io.
«Lei ci va allo
stadio?»
Aggrottai
la fronte. «No.»
«Dovrebbe
andarci, avvocato», affermò con tono imperativo.
«Non mi
interessa il calcio.»
«Eh, però
allo stadio tutti urlano Ibra. Mi acclamano per tutto il tempo, per tutta la
durata della partita. Senza tregua. Ibra, Ibra, Ibra! »
«Ma lei mi
ha detto di chiamarsi Porta non Ibra, o sbaglio?»
«Sì, Davide
Porta. Ma per la mafia russa io sono Ibra. Nei loro fascicoli io sono Ibra.» Serrò
la mascella. «Vogliono il mio segreto.» Poi si sporse in avanti verso di me
senza togliere la mano dall’occhio. Stava cercando la mia approvazione. «Sono
stato dall’oculista. Mi ha narcotizzato con quelle gocce che dilatano la
pupilla. Mi hanno dimesso ventiquattro ore dopo.»
Mi fissò
serio. «Lei non mi crede. Ma io ho le prove. Posso dimostraglielo. Guardi qua»,
disse.
Tirò fuori dalla
tasca interna della giacca un foglio di carta piegato in quattro. Lo posò
sulla scrivania e lo fece scivolare verso di me.
Lo lessi.
Sul foglio c’era scritto in stampatello: 05/03
h 8 ingresso in ospedale, 06/03 h 8 uscita dall’ospedale.
Porta afferrò
il foglio e dopo averlo ripiegato con cura, lo fece scivolare di nuovo nella
tasca. Mi guardò soddisfatto. Per la prima volta sorrise. Si appoggiò allo
schienale della sedia. «Allora? Adesso ha visto. Questa è la prova. L’ospedale
appartiene alla mafia russa. Mi hanno portato nel seminterrato. Ci sono le sale
operatorie. In una di quelle mi hanno operato per ventiquattro ore. Me lo hanno
fatto lì.»
«Fatto
cosa?», chiesi intrecciando le mani dietro la nuca.
Porta si
guardò attorno. Si accarezzò con la mano sinistra le rughe della fronte, che
sembravano incise con uno scalpello e prese a parlare sussurrando. «La telecamera. Mi
hanno inserito una telecamera dietro al cristallino. Adesso vedono tutto ciò
che vedo io. Jango ora può vedere tutto ciò che vede Ibra.» Alzò il tono della
voce. «Ma il mio segreto non lo avranno mai!»
Porta mi chiese di denunciare Merab Dzhangveladze detto Jango, un uomo di
potere con notevolissime disponibilità economiche. Così lo definì. «Tanto per
capirci, avvocato. Jango in Italia gira con un Mercedes 5000 cc classe S. Il regalo
di un politico», precisò facendomi l’occhiolino con l’unico occhio scoperto. «La
mafia russa arriva ovunque. Non da oggi, naturalmente. S’infiltra senza fare
rumore. Stringe patti con i clan italiani, tanto da trovare accordi con i
calabresi per organizzare in casa loro i summit. Tuttavia le basi operative sono
in Lombardia, nel comune di Pioltello per essere precisi.»
Da quel
giorno Porta salì nel mio studio ogni mattina, per un mese. Mi raccontava tutto
ciò che aveva vissuto il pomeriggio prima, a seguito del nostro incontro.
Io lo
ascoltavo.
Una mattina
ne ebbi abbastanza. Gli dissi che doveva farsi aiutare. Fui perplesso quando
mi rispose che avevo ragione.
Telefonai
al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’ospedale più vicino al mio
studio e chiesi se potevo passare da loro con un paziente. Ci andammo in taxi.
Appena entrati nel padiglione del SPDC, le porte di vetro blindato si
richiusero alle nostre spalle facendo un rumore metallico. Trasalimmo entrambi.
Il rumore non era diverso da quello che udivo quando mi recavo in carcere da un
cliente.
Un
infermiere ci guidò dentro un lungo corridoio. Alla fine ci sedemmo in una sala
d’attesa. Restammo in silenzio, uno accanto all’altro.
Lo
psichiatra, un uomo alto con i capelli grigi, radi e tenuti incolti di
proposito, ci chiamò una ventina di minuti dopo.
Ci fece accomodare nel suo
studio. La stanza era angusta e buia. Un buco con dentro una piccola scrivania.
Prendemmo posto sulle sedie profilate in allumino. Notai l’unica finestra. Dava
sul giardino. Non aveva sbarre, ma era priva di maniglia e dotata di vetri anti-sfondamento.
Il medico
ci scrutò con un’aria di superiorità e scetticismo che esibiva come un
marchio di fabbrica.
Stavo per
iniziare a spiegare la situazione quando Porta prese a parlare con voce ferma: «Buongiorno,
mi chiamo Andrea Nobili, sono avvocato.» Mi indicò. «Le ho portato il signor
Davide Porta. Temo sia affetto da un grave disturbo psichiatrico.»
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