Musa Prokuplio di Paolo Melissi e gli inediti, su Books

Nel 2008 questo, di Paolo, era un inedito molto bello che riservò al blog Books. Non so se è rimasto inedito, spero di no, e, se non lo è rimasto, non so che strade ha percorso. 
Riproponendolo, colgo l'occasione per  ritrovare questa abitudine che c'era e ci sarà ancora. 
Spazio per racconti inediti e non solo ( preferibilmente, una volta editi qui, possono poi essere destinati ovunque). Si potranno proporre  accompagnati da video, foto, link.  Si può usare la mail che trovate sulla pagina Facebook, che è la mia, o si può scrivere a Nunzio, Paolo o Augusto.
Buona lettura. ( foto di Paolo Melissi)




La donna guardò l’orologio come per forzarne le lancette in avanti, anticipare l’arrivo in stazione e disfarsi della traduzione per la casa editrice i cui fogli dattiloscritti le opprimevano il petto. Fissò lo sguardo oltre il vetro del finestrino rigato di pioggia sottile e seguì la desolazione del paesaggio ferroviario in corsa: grigie facciate di palazzi segnate dal passaggio dei convogli, scambi e binari morti, glabri campetti di calcio, officine unte di olii e combustibili, cimiteri d’auto e pneumatici, depositi di ferraglie laterizi e cavi.
Scese dal treno liberata dalla costrizione del sedile, trascinò la valigia con le rotelline lungo la banchina, proiettata verso l’uscita in un acuto incedere di tacchi. Evitò due piccioni pigri che si levarono in volo, due viaggiatori carichi come portatori himalayani, aprì la borsa per comperare una scheda telefonica, frugò in quell’abisso e, senza accorgersene, fece scivolare fuori un astuccio in cui custodiva una copia delle chiavi di casa, un’agendina, un segnalibro d’argento, una matita per gli occhi, due caramelle alla menta, un biglietto ferroviario usato e una piccola rubrica telefonica.

L’uomo aveva atteso con ansia che la lancetta piccola dell’orologio si fermasse sul numero uno e quella lunga sul dodici per alzarsi dalla sedia che aveva scaldato per tutta la mattina, raccogliere la mazzetta dei giornali posata sullo stretto tavolo dell’ufficio informazioni, e lasciare il posto al collega del turno successivo. Accusava il peso della mole eccessiva di informazioni date ai passeggeri, come raggiungere quella città approfittando di quella coincidenza, quale rapido partiva in tempo per essere alla tale ora nel tale luogo, e così domandando e rispondendo con picchi di affluenza che, nell’ora di punta, avevano creato lunghe code che si snodavano ben oltre l’ingresso dell’ufficio, irte di zaini, berretti, occhiali, bocche in movimento, trabordanti nell’atrio superiore della stazione.
Quando uscì dalla sua postazione l’uomo andò a comperare le sigarette e, mentra parlava con la tabaccaia, come ogni giorno, si rese conto di stare calpestando qualcosa. Raccolse un astuccio e se lo infilò in tasca scendendo verso il metrò.
Dopo pranzo si ricordò dell’astuccio e lo tirò fuori per esaminarlo in compagnia della moglie. Rovesciò il contenuto sul tavolo cosparso di briciole di pane e passò in rassegna tutti gli oggetti con cura. Lo consegnerò domani all’ufficio oggetti smarriti, disse alla moglie. Più tardi lo riaprì, sfogliò l’agendina e ne lesse la prima pagina su cui era indicato il nome del proprietario, il numero di telefono e quelli di carta d’identità e di passaporto. Lo incuriosì il nome: Musa Prokuplio.

Musa tornò a casa accompagnata da un senso di sollievo. Aveva consegnato la traduzione con tre giorni d’anticipo sul tempo previsto, quelle pagine pesanti che associava al lutto per l’amore che sentiva morire nelle vene. Salì in casa e andò subito al terrazzo per vedere finalmente la cometa. Seguì le istruzioni diffuse da tutti i telegiornali e dalla stampa. Puntò gli occhi come uno strumento ottico, come un cannocchiale sul tramonto, li spostò a destra, salì più su e la vide: traccia di materia lucente che taglia la notte celeste, sostanza catturata da un moto eterno, corsa affondata nelle corsie dell’universo, bolide di ghiacci polveri e particelle che si allarga in due code, strascichi lucenti.
Quando si ritrasse dalla ringhiera rientrò in casa portandosi dentro una improvvisa quiete, una segreta nostalgia di firmamento che accompagnò una solitaria lacrima. Quando fu nel vano uterino della doccia, sotto lo scroscio caldo dell’acqua, chiuse gli occhi e immaginò di essere bagnata dalla luce immensamente lontana della cometa.

Il mattino dopo l’uomo tornò alla postazione dell’ufficio informazioni, siglò il foglio presenze con uno svolazzante Grinzani, girò il cartello che trasformò da chiusa in aperta la sua piccola fortezza di vetro assediata dai viaggiatori affamati di orari, treni, coincidenze. Come se la cosa più importante fosse venire in possesso di quelle insignificanti informazioni, gli orari.
Terminato il suo turno, Grinzani fece per dirigersi verso l’ufficio oggetti smarriti, ma poi salutò con un cenno il volto conosciuto che appassiva dietro il vetro, una boccia di vino con le gambe e lo sguardo vuoto e proseguì la sua marcia di ritorno a casa.
Dopo cena disse alla moglie che sarebbe andato alla sala da biliardo e scese in strada assecondando strani fermenti che un po’ lo preoccupavano. Seguendo un piano che non aveva preordinato, si infilò in una cabina telefonica e compose il numero segnato sull’agendina. La cornetta gli rimandò a lungo squilli in una casa vuota, nessuna voce. Un tram gli si fermò accanto e lui salì sapendo che lo avrebbe avvicinato all’indirizzo custodito dall’agendina.
Tremava. Prese le chiavi dall’astuccio, aprì il portone e, cercando di non far rumore e di non attirare l’attenzione, cominciò a salire le scale, leggendo sulle le targhette delle porte per trovare l’appartamento giusto. Il terzo piano era immerso nell’oscurità, e Grinzani identificò a stento le lettere che componevano il cognome che cercava. Aprì la porta servendosi di due chiavi, una lunga e una più corta, entrò sconvolto da tremiti crescenti, come se fosse stato nudo tra i ghiacci, richiuse e si affrettò a gettare un’occhiata sul pianerottolo attraverso lo spioncino. La casa era immersa nel buio, dalla strada proveniva il chiarore smorto dei lampioni che lo guidò verso lo studio. Preso da una crescente euforia accese una piccola lampada sul tavolo e si guardò intorno. Un lungo finestrone si apriva sulla parete affacciata sulla strada, lungo tutta la quale correva un doppio piano di cristallo poggiato su tre cavalletti di legno. Sopra c’erano un computer portatile, libri, fogli, vocabolari di greco e spagnolo, penne, matite, manoscritti. Le altre pareti erano occupate da librerie e da un divanetto.
Grinzani, affascinato, si mise a leggere i titoli dei libri: Anna Karenina, Il circolo Pickwick, Il buon soldato Sveik, Le mille e una notte, Uno studio in rosso, La casa sull’estuario. Quei titoli, inspiegabilmente, lo attraevano, e li avrebbe letti tutti se non avesse temuto per un improvviso rientro della padrona di casa, perché leggendoli gli sembrava d’ascoltare una storia, un racconto le cui parti gli avrebbero svelato tutto della persona che gli aveva acquistati. Poi lo attrasse un’agenda aperta da cui annotò mentalmente appuntamenti e orari.
Sul ripiano di una libreria c’era una foto. Un’Irene Papas giovane sorrideva abbracciata a un uomo alto e muscoloso protraendosi verso l’obbiettivo, sullo sfondo una spiaggia e un mare azzurro. Musa Prokuplio, pensò Grinzani, è lei. Sullo scaffale inferiore c’era una cartolina raffigurante la Dama di Elche, una scultura esposta al Museo Archeologico Nazionale di Madrid. Spense la luce, si sedette sul divanetto e rimase nella penombra ad ascoltare il silenzio. Poi la paura lo fece alzare di scatto. Uscì, chiuse la porta a chiave e scomparve nel buio delle scale.
Quella sera Musa rientrò in casa molto tardi e, mentre si spogliava come per liberarsi di un peso invisibile, andò subito nello studio, accese la lampada e riempì una pagina di diario di getto, con rabbia, forzando la punta della penna sulla carta, incidendo le parole sulla carne, sul corpo dell’uomo che era la causa della sua sofferenza.

Grinzani era tornato all’appartamento deciso a esplorarlo in ogni angolo: voleva passare in rassegna ogni cosa senza alterare nulla, attento a non lasciare tracce della sua intrusione. Gli sembrava d’essere un agente segreto a caccia d’indizi, attento a valutare ogni piccolo segnale. Il primo atto fu quello di sedersi alla scrivania e leggere qualche pagina del diario rimasto aperto sul piano di cristallo.

Ho voglia di partire, di andare a Tarxien, ad Hagar Qim, sull’isola di Malta, vagare senza pensieri tra le rovine dei templi megalitici, e vedere finalmente la statua della Grande Madre chiusa nel Museo della Valletta. E continuo ad aver voglia di scendere sotto terra, calarmi nell’ipogeo di Hal Saflieni, o nuotare in laghi e vasche sotterranee. Tutto ciò viene da sogni che di continuo mi visitano confusi in queste notti. Mi capita spesso di sognare l’ingresso di una grande caverna, un’apertura verticale che si apre misteriosa nella roccia che ricorda le forme di un sesso femminile, altre volte invece vedo una sconfinata distesa di picchi montani sfiorati dalle nubi. La sensazione è sempre la stessa: una promessa di pace che alla fine mi sfugge, una prospettiva di gioia che si dilegua quando il risveglio giunge come una condanna.

Grinzani si alzò ma una improvvisa pesantezza di palpebre lo fece accasciare sul divanetto. Sprofondò nel sonno come in un lago dalle acque senza luce. Si risvegliò di soprassalto, subito ben desto, timoroso di trovarsi al cospetto della padrona di casa, scoperto e nei guai.
Ma non c’era nessuno in casa, aveva dormito per non più di un quarto d’ora ed aveva anche sognato. Una cima di un monte che scompariva in lontananza, avvolta da cortine impenetrabili di nubi. Gli sembrava di stare volando con tutte le sue forze in quella direzione, ma di essere sempre risospinto indietro da fortissime correnti aeree avverse. E quella vetta che si allontanava gli ricordava un trono, un gigantesco trono montano perso tra le nubi.
Si alzò, andò in bagno, si gettò dell’acqua fresca sul viso, si asciugò col fazzoletto per non lasciare tracce umide sull’asciugamani, poi andò in cucina per continuare la sua esplorazione. L’ambiente era piccolo ma arredato con cura e funzionalità. Aprì il frigorifero e lo trovò troppo vuoto per il suo modo di vedere. Mangia poco, pensò, o si rovina spesso lo stomaco con pasti fuori casa frettolosi e pesanti, pensò Grinzani esaminando i vasetti di yogurt, le uova, le marmellate, il contenitore dei formaggi e il trionfo di insalata sedani pomodori finocchi carote del cassetto trasparente delle verdure.
Poi studiò le foto trovate nel primo cassetto del comò, immagini di una Musa distante, i cui occhi allungati sembravano forare la carta lucida, vivi e come puntati su personali insondabili profondità.
A Grinzani piaceva osservare i bicchieri e i piatti nella vetrina del soggiorno, far scorrere la mano sulla stoffa che ricopriva la testiera reclinabile del letto, inseguire le simmetrie dei quadretti e delle stampe appesi alle pareti, aprire i cassetti dov’era conservata la biancheria per cercare qualcos’altro: una lettera, una fotografia ingiallita, una moneta fuori corso.
Nel registratore portatile era inserita una cassetta: Carlos Paredes, Concerto em Frankfurt. Grinzani schiacciò il tasto e una musica di chitarra triste e struggente lo avvolse, e seppe subito che quelle note erano Musa, erano i suoi sentimenti. L’uomo lesse i titoli: Canto do amanhecerCanto de amorCanto do rio. Poi, richiamato dagli impegni coniugali e dall’imminente ritorno della padrona di casa, spense il radioregistratore, gettò un’occhiata rapida per controllare se avesse lasciato tutto in ordine e andò via.

Musa non ne era certa, credeva che la confusione di sensi e sentimenti di quei giorni la ingannassero, ma c’erano cose che la facevano dubitare. Avrebbe giurato che la cassetta di Carlos Paredes fosse rimasta a metà ascolto del primo pezzo, Canto do amanhecer, e che non fosse giunta quasi al termine. E poi le sembrava di afferrare nell’aria un sentore vago di nicotina, di fumo rimasto impigliato nella stoffa delle sedie e del divano. C’era qualcosa che poteva percepire attraverso la vista, il tatto e l’olfatto: impercettibili cambiamenti nella disposizione degli oggetti che non erano esattamente come ricordava d’averli lasciati. Era quasi certa che qualcuno si fosse seduto sul divanetto dello studio osservando la trama di pieghe e grinze che si allargava sul cuscino, o che sempre quel possibile qualcuno avesse sfilato di qualche centimetro un libro dalla sua postazione nella libreria per poi risospingerlo al suo posto. Nulla le sfuggiva perché la casa era un prolungamento del suo corpo, poteva sentirla quasi come un essere vivente, pulsante e ronzante di elettrodomestici, la cui temperatura variava col trascorrere delle ore. Ma le pagine del diario la chiamavano, aveva bisogno di scrivere, e i sospetti si diluivano nell’inchiostro della penna.

Per caso ho ritrovato nell’archivio dei ritagli di giornale un breve articolo sulla riscoperta di un quadro di Courbet, per anni rimasto nascosto.
Nel 1866 Kahlil Bey, ambasciatore turco a Parigi nonché giocatore d’azzardo e collezionista di quadri, commissionò un’opera a Gustave Courbet. La collezione del diplomatico era fatta solo di nudi femminili, un harem su tela. Courbet dipinse una tela di quarantasei centimetri d’altezza e cinquantacinque di larghezza che intitolò L’origine del mondo. Rappresenta un torso di donna distesa con le gambe divaricate tra cui i folti peli del pube sormontano un sesso completamente esposto all’occhio dell’osservatore. Una camicia sollevata lascia scorgere una porzione dei seni, ma nient’altro è visibile del suo corpo: non le gambe, non il volto della modella, che pare fosse Jo Alferman, la “Bella irlandese” musa e amante di Whistler.
Il quadro, prima di tornare visibile al pubblico nella sala Courbet del Musée d’Orsay, era passato di mano in mano a collezionisti che lo avevano tenuto gelosamente nascosto, mostrandolo a rari visitatori. L’ultimo proprietario era stato lo psicologo Jacques Lacan che, come gli altri, aveva tenuto il quadro ben celato da un pannello dipinto dal cognato, il pittore surrealista Andrè Masson.
Io non capisco per quale motivo quest’immagine sia stata così a lungo, e inutilmente, ritenuta scandalosa. Può suscitare interesse, attrazione, curiosità, anche desiderio, ma non scandalo. E poi in quella figura ritrovo un’assonanza insospettata con l’ingresso della grotta che così spesso si presenta nel corso dei miei ultimi sogni. L’organo che mostra il suo dischiudersi tra le gambe della donna ritratta sul quadro è molto simile all’apertura verticale nella roccia che vedo nel sogno: c’è in entrambi un senso di umido mistero, un rinvio a più oscuri recessi. In un continuo gioco di analogie la roccia mi rimanda alla carne, e viceversa.

Per molti anni Grinzani aveva raccolto i biglietti del metrò che avevano scandito l’andare e tornare tra casa e posto di lavoro, ogni giorno due rettangoli di carta che contrassegnava con qualche breve annotazione o semplice parola: nomi di cose o persone, numeri di telefono, brevi frasi, parole da verificare sul vocabolario, ricordi, sempre con grafia sottile e inchiostro nero. Ne aveva riempito una vecchia scatola di biscotti in latta, che gli ispirava un gradito senso di tempo andato che teneva nell’armadio. La tirò fuori e ricordò che sul primo biglietto aveva depositato, con quattro lettere in stampatello, la parola MARE, per conservare più a lungo l’immagine di acque caraibiche viste su un manifesto pubblicitario nell’ingresso della stazione. Di molti aveva perso il ricordo, ed ora li disseppelliva dalle sabbie della scatola, sconvolgeva le stratificazioni che s’erano formate nel tempo, smuoveva il limo depositato sul fondo.
Come un cane che cerimonioso offre il proprio osso al padrone al suo rientro a casa, sentiva il bisogno di regalare quei biglietti alla donna, desiderava che Musa li leggesse tutti, che partecipasse di quel tempo scandito dal moto dei vagoni sulle rotaie.

Raccontò l’ultima bugia a sua moglie, giurò a se stesso che sarebbe stata l’ultima, comprò in pasticceria una torta ai frutti di bosco, e con i due involti sulle braccia andò all’appuntamento che solo lui aveva fissato. Camminando avvertì il sollievo crescente di sapere quella storia alla sua conclusione, di stare assistendo all’epilogo.
Salì gli scalini lentamente, giunse al pianerottolo, contemplò con stupore la mano e il braccio che si protendevano nel loro tragitto verso il campanello, osservò il pulsante rosso che entrava e usciva dal suo alloggiamento, e l’udito gli rimandò, come proveniente da remote regioni, il trillo leggero che risvegliò nell’appartamento altri suoni e rumori.
La donna si era fermata dietro la porta a sbirciare attraverso lo spioncino, poi sentì lo scorrere di un chiavistello, vide il battente aprirsi. Musa lo osservava per nulla stupita o preoccupata. O almeno in nessun modo dava a vedere d’esserlo. Grinzani imbarazzato stringeva a malapena gli involti col braccio sinistro, mentre quello destro si stava ritraendo con difficoltà dal campanello per tornare alla sua consueta postura lungo il fianco.
La donna ruppe il silenzio, Entri, gli disse, Non rimanga lì. Mentre sentiva la porta richiudersi alle spalle, Grinzani avvampò di rossore, rendendosi conto per la prima volta che, fino al giorno prima, aveva violato la legge e l’intimità di un’altra persona.
Musa lo fece accomodare nel soggiorno, continuando ad osservarlo, Grinzani non riusciva a parlare, sommerso da ondate crescenti di vergogna. Finalmente la conosco, era da molto che mi chiedevo chi fosse, che cercavo di delineare il suo aspetto. La immaginavo più basso. Lei mi deve perdonare, riuscì a dire l’uomo, dopo essersi presentato, Non ho mai avuto cattive intenzioni, ho sbagliato ma non me ne sono mai reso conto davvero. Ho fatto tutto come in un sogno. Grinzani posò sul tavolino la torta, la scatola e l’astuccio, li spinse avanti come offerta pacificatoria, a rinforzo delle scuse che non gli sembravano sufficienti. Un sorriso si aprì dall’altra parte, Cosa mi ha portato, Una torta per il suo compleanno, e qualcosa che gradirei lei conservasse. E’ vero, oggi è il mio compleanno, sussurrò la donna lasciandosi sfuggire un cenno amaro sulle labbra che, un attimo dopo, si allargò in un sorriso ampio e riconciliato. Mangiamo questo dolce, Signor Grinzani, ne abbiamo bisogno. Quando la donna tornò dalla cucina con piatti paletta per dolci e forchettine, Grinzani aveva recuperato un po’ di calma e aveva smesso di sudare. Auguri, Musa, disse con una familiarità e una venatura di tenerezza che non avrebbe potuto prevedere.
Finito di mangiare il dolce, Musa si incuriosì per la scatola poggiata sul tavolino. Lo apra, disse Grinzani, Ma non si aspetti nulla di straordinario.
Paolo Melissi

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