LIBERO ARBITRIO di MICHELA DE MATTIO


LIBERO ARBITRIO di Michela De Mattio

Foto di Camilla Coppola

LIBERO ARBITRIO

Stava seduta in macchina da un paio d’ore. Indossava un vestito nero, corto e aderente. Ai piedi, un paio di scarpe tacco dodici. Aspettava. A un certo punto lui sarebbe uscito dallo studio legale e si sarebbe diretto alla sua Renault Megane. L’aveva parcheggiata di fronte a lei, dall’altra parte della strada. Forse indossava quell’abito grigio che le piaceva tanto, sopra una camicia bianca.
Contemplò l’immagine del suo viso nello specchietto retrovisore. Nei suoi occhi, un incendio. Fece una smorfia di compiacimento. Ripensò a quando Matteo le aveva rivolto la parola la prima volta. Il suo viso, il corpo asciutto e muscoloso, quel sorriso da bambino. Odio, odio puro. Ecco ciò che provava.
Erano state le parole di lui a risvegliare quel sentimento nel suo animo. O forse no. Forse c’era già da tempo. Scosse più volte la testa, e così fece la donna nello specchietto retrovisore.
Sì, l’odio c’era già. Però non era mai riuscita a dargli un nome. Adesso che lo sapeva nominare, quel sentimento parve allargarsi come una nube nera e densa che si impossessò del suo cuore. Dentro di sé non percepì altro. La colpa era di Matteo.


Era iniziato tutto un mese e mezzo prima. In biblioteca, una sera, Matteo aveva raccolto i suoi libri e le aveva detto: «Alice, domani parto per Roma. Ho il concorso per diventare magistrato.» Si era chinato su di lei per darle un bacio sulla guancia sfregiata. «Dai, augurami buona fortuna», aveva concluso sorridendo.
Lei lo aveva fissato negli occhi per qualche istante, in silenzio.
Aveva ripreso a parlare dopo essersi schiarita la voce. «Non verrai più in biblioteca?»
«Spero proprio di no», aveva risposto lui stiracchiandosi. «Vorrebbe dire che non ho passato l’esame.»
Alice ci aveva anche provato a sorridere. Le era uscito un ghigno.
«Ho il tuo cellulare e tu il mio. Appena torno ti chiamo e usciamo a cena. Così finalmente ti faccio conoscere mia moglie e tu mi fai conoscere tuo marito.»
Matteo si era allontanato con quella luce sul volto e il suo modo di incedere rilassato ma sicuro. Lei, immobile sulla sedia, lo aveva scrutato fino a quando era scomparso dalla sua visuale.
Lui era stato di parola. Aveva superato il concorso per diventare magistrato ordinario e le aveva telefonato per proporle una cena a quattro. Lei, fredda, aveva accampato delle scuse. Lui aveva commentato: «Peccato», con il suo solito tono gioioso, come se non gli importasse davvero.
Oggi Matteo non avrebbe sorriso.
Avrebbe fatto ciò che voleva lei. Sarebbe stato suo.
Si allungò sul sedile e si eccitò immaginando la paura che avrebbe provato. Anche gli animali che aveva ucciso da adolescente avevano avuto paura. Il loro odore cambiava, poco prima della morte. E più erano grandi, maggiore era il terrore che provavano.
Gli uccelli erano noiosi. Preferiva i cani e gatti. Loro sapevano quando si trattava di morire. Ma gli animali non parlavano. Matteo avrebbe parlato. E sì che avrebbe parlato. Di fronte alla morte avrebbe ceduto. L’avrebbe implorata di non farlo. Prima di andarsene per sempre, avrebbe fatto sesso con lei. Le avrebbe dato quel piacere che desiderava dalla prima volta che lo aveva visto.
Una sola cosa la preoccupava: riuscire a contenere l’emotività. Quando si eccitava troppo, le cose andavano storte. Era accaduto con il suo primo gatto. Dopo l’amputazione del primo orecchio non era più stata capace di controllarsi e aveva iniziato a ferirlo senza criterio, molto prima del tempo.
«Non ti perdonerò mai», sussurrò.
Accavallò le gambe e prese a rimuginare su quanto le era accaduto nel corso della sua esistenza. Ci avrebbe giurato di aver rielaborato e metabolizzato ogni cosa. Non era vero. Tutta la rabbia era riemersa all’improvviso.
Aveva dieci anni. Stava rincorrendo suo fratello a casa della nonna. Aveva urtato la pentola sul fornello. Due litri di acqua bollente si erano riversati su parte del suo corpo e sulle sue mani. Schizzi come lame erano rimbalzati sulla metà destra del suo viso.
Avvertì lo stesso dolore urente e si sfiorò la guancia destra con due dita.
Aveva trascorso tre mesi nel reparto di rianimazione per ustionati del Policlinico. Ne era uscita viva.
Dall’età di ventidue anni, quando i medici ritennero che la crescita delle ossa del suo massiccio facciale fosse completa, era stata sottoposta a sei interventi di chirurgia plastica ricostruttiva. Dissero di aver fatto miracoli. Loro lo dissero. Il suo volto non tornò mai normale.
Il periodo dell’adolescenza era stato un incubo. Era riuscita comunque a diplomarsi e in seguito, a laurearsi in Lettere e Filosofia. Da dici anni insegnava all’università e aveva già pubblicato alcuni saggi di una certa rilevanza.
Il primo rapporto sessuale lo aveva avuto all’età di trent’anni. Non aveva provato nulla. Tuttavia aveva scoperto con orgoglio che molti degli uomini che fissavano le sue cicatrici, ne erano attratti e non disgustati. Aveva imparato a trasformare quegli sfregi in un vanto. In qualcosa da esibire. Per un lungo periodo di tempo si era accontentata di essere una trasgressione.
All’età di quarant’anni aveva conosciuto Gian Maria, in chat. Si erano incontrati pochi giorni dopo. Lui la voleva tutta per sé. Amava le sue cicatrici. Lo eccitavano, ne era ossessionato. Si sposarono.
Quando conobbe Matteo si sentì viva come mai le era accaduto prima. Non era importante che fosse sposato. Lo era anche lei. Nemmeno le interessava che lui fosse davvero felice e che gli si illuminasse lo sguardo al solo nominare la moglie. Quello stesso giorno decise che sarebbe stato suo.
Alice, prima di incontrarlo, andava in biblioteca per consultare certi libri rari che non trovava nelle librerie. Matteo, in biblioteca ci studiava. Dal lunedì al venerdì, dalle diciotto alle ventidue.
Per quasi un anno si sedette al suo stesso tavolo. A volte accanto, altre di fronte. Intanto leggeva e scriveva.
Matteo dimostrava di apprezzare la qualità delle sue letture e dei sui scritti. Era più giovane di lei di quindici anni, ma a differenza degli altri uomini non sembrava interessato alle sue cicatrici. Dava l’impressione di non vederle nemmeno.
«Non ti perdonerò mai», ripeté ad alta voce.
Le si riempiono gli occhi di lacrime. Traboccarono sulle guance e fluirono tra i seni. Quell’uomo le aveva fatto male. L’aveva abbandonata, ferita, rifiutata. Niente e nessuno avrebbe potuto lenire quel dolore.
Il set di strumenti di dissezione le era costato parecchio, ma era completo. Comprendeva tagliaossa, spaccacranio, coltello per cartilagine, sonda cranica. L’aveva ordinato via internet. Si era messa a studiare su un atlante di anatomia. Per un mese aveva preso appunti su un taccuino. Aveva seguito e fotografato Matteo di nascosto. Aveva incollato le foto della sua testa su immagini di corpi nudi scaricate dal web. Sopra ci aveva disegnato le linee dove tagliare. Linee nere e tratteggiate come quelle sull’atlante.
Matteo uscì dallo studio.
Alice si preparò. Quando lui si richiuse il portone alle spalle, lei si mosse sul sedile per uscire dalla macchina e raggiungerlo. Lo avrebbe invitato a prendere un aperitivo per festeggiare il suo concorso. La parte più difficile sarebbe stato convincerlo a salire sulla sua automobile.
Era pronta. Aveva messo per iscritto tutte le varianti sul suo taccuino.
Per un istante esitò. Ripensò al suo sorriso pulito, alla dolcezza con la quale l’aveva sempre trattata. «Forse sto sbagliando tutto», sussurrò afferrandosi la testa tra le mani. Inspirò a fondo. Ne rammentò ancora la fiducia ostinata nell’essere umano, l’entusiasmo per la vita e riavvertì l’odio salire. Spalancò la portiera dell’auto.
Gli agenti di polizia perquisirono l’abitazione di Alice Grandi dopo aver trovato nell’automobile il set da dissezione e il taccuino. Entrando dal garage si accedeva al laboratorio d’orafo del marito.
Gian Maria, il giorno stesso, era partito per Santa Margherita Ligure. Sua sorella aveva appena partorito. Nel laboratorio trovarono un materasso steso per terra ricoperto da lenzuola di raso nero. Due manette pendevano dal termosifone. Sul bancone da lavoro una bottiglia di cloroformio.
Una Volvo investì Alice con la fiancata destra, mentre stava uscendo dalla macchina. Volò sopra il cofano, sfondò il parabrezza con la testa e rimase inerte con parte del corpo adagiato sul lato sinistro della vettura. Morì nel tragitto verso l’ospedale. Aveva appena compiuto cinquant’anni.
Matteo Lentini partecipò al funerale di Alice Grandi. Lo videro piangere.
Io difesi l’uomo al volante della Volvo. Gli diedero due anni con la condizionale per omicidio colposo.

Commenti

Post più popolari