Le parole che sanno ancora di sangue e le memorie dei Balcani
Una premessa necessaria, questo libro è introvabile, e questa recensione appassionata è del 2007. Il romanzo non ebbe il successo che l'autrice sperava e lei scomparve. Smise di pubblicare, scomparve dalla rete. Fu un grande peccato la sua scomparsa da internet cancellando tutte le tracce perché le "sue" tracce, i suoi reportage fotografici, il suo ossessivo, puntuale e controcorrente racconto sui Balcani, nel blog, erano materiale inestimabile. Io la lessi, la seguii, mi faceva da bussola, mi spiegava, non ero mai stata a Belgrado. Non conoscevo niente, ero intessuta di ciò che si doveva credere e pensare qui seguendo le indicazioni e la propaganda occidentale, non sapevo di Mitrovica, ero ignara.
Poi, ho cominciato a leggere e studiare altro, e a me è cambiata la vita, sono stata a Belgrado molte volte, e ancora più volte nella Bosnia serba, nella città che nessuno conosce, Banja Luka, quella dei cattivi. La città dei colpevoli, degli assedianti. Ho iniziato a fare la mia parte proprio lì.
Parte del mio ultimo romanzo è ambientata lì, e prima di quel romanzo ho scritto un cahier di viaggio dedicato proprio a Belgrado. Non manca mai, un riferimento a Babsi Jones in questa mia esplorazione balcanica, in questa scrittura. Non manca mai un ringraziamento. La mia copia di Sappiano le mie parole di sangue è ormai distrutta, piena di appunti, di annotazioni, ma mi accompagna lo stesso, è con me in ogni frontiera che passo, è con me quando voglio ricordarmi cosa e come si può essere cambiati dalla letteratura
E così, ripropongo la recensione di allora, che riscriverei uguale.
Perché alcuni libri meritano omaggi che vanno ripetuti, che meritano di essere riproposti con cura. Perché sono i libri che restano.
Viviamo
un tempo che cerca tessiture leggere.
Viviamo
questo tempo di orlati impalpabili che si sfilacciano subito,
se li tocchi per molto finisce che poi ti carezzi i pollici
senza più niente in mezzo e, a dire la verità, è quello che si
desidera, in fondo, carezzarsi i pollici, come guardarsi allo
specchio, farsi un ritratto e metterlo on line, rimirarsi ombelichi.
Ombelichi che sono metafore di storie mal raccontate, male impostate,
superficiali, pseudo scandalistiche, sciocche o serenamente
amorfe. Passiamo attraverso pornoromantiche e grandifratelli, opere
prime di ventenni che non arriveranno alle seconde, isoledei "famosi
per certuni", compiaciuti sguardi defilippeschi su
abbracci di famiglie esposte all’applauso lacrimevole di un
pubblico partecipe, partigianerie sul web, lodare e denigrare,
denigrare e lodare, magari nei commenti ai blog, magari in un proprio
spazietto( da difendere con le unghie e coi denti). Che malinconia,
in fondo. A questa composizione, una natura morta, fuor di
metafora, aggiungere una manciata di aggettivi che fanno parte
del vocabolario medio dell’uomo catodico contemporaneo ( bello,
carino, disgustoso, orrendo, di tendenza) e ci siamo.
E’ in questo tempo, in questo duemilasette con partiti che acclamano il segretario e deprecano il giudice che va un pochino a fondo nel dilagante malaffare permesso e concesso, con tragedie di carrette sul mare che ci fanno guardare le immagini al tiggì per una frazione di secondo e notizie di pettegolezzi sulla famiglia Agnelli o sul testamento Pavarotti o sul delitto ***( spazio da riempire a scelta) che ci appassionano e ci coinvolgono da matti, tutti, per mesi e per lunghissimi speciali di brunivespa arrapati, in questo duemilasette dalla schiena debole e anche un po’ piegata in questa Italia triste è uscito Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones. Io ho questo libro da un mese e mezzo e in questo mese e mezzo l’ho letto due volte per intero e ne ho riletti lunghi pezzi, anche ad alta voce. Mi è piaciuto leggerli ad alta voce, sentirli "suonare", è una scrittura che si presta all’oralità. Anzi, si offre all’oralità, con una generosità che sorprende. Perché ho aspettato a scriverne? Intanto ero indecisa, su certe cose faccio fatica a trovare le parole. Poi ho approfondito.
E’ in questo tempo, in questo duemilasette con partiti che acclamano il segretario e deprecano il giudice che va un pochino a fondo nel dilagante malaffare permesso e concesso, con tragedie di carrette sul mare che ci fanno guardare le immagini al tiggì per una frazione di secondo e notizie di pettegolezzi sulla famiglia Agnelli o sul testamento Pavarotti o sul delitto ***( spazio da riempire a scelta) che ci appassionano e ci coinvolgono da matti, tutti, per mesi e per lunghissimi speciali di brunivespa arrapati, in questo duemilasette dalla schiena debole e anche un po’ piegata in questa Italia triste è uscito Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones. Io ho questo libro da un mese e mezzo e in questo mese e mezzo l’ho letto due volte per intero e ne ho riletti lunghi pezzi, anche ad alta voce. Mi è piaciuto leggerli ad alta voce, sentirli "suonare", è una scrittura che si presta all’oralità. Anzi, si offre all’oralità, con una generosità che sorprende. Perché ho aspettato a scriverne? Intanto ero indecisa, su certe cose faccio fatica a trovare le parole. Poi ho approfondito.
Ho
letto articoli su quella guerra, ho cominciato
ad approfondire per saperne di più. Mi ha aperto tante di
quelle finestre questo librò, oblò, porte, portoni, punti di
vista, era impossibile non desiderare andare oltre e conoscere
altro, orientarsi, ho letto un altro libro sui Balcani e
una rivista dove si parla della situazione attuale del Kosovo(
dove è ambientato il romanzo di BJ) e dei suoi problemi ( mafie,
divisioni ecc) Avevo, in realtà, molta voglia di scrivere del
mio incanto e della bellezza di questa lettura, e se avessi
continuato a documentarmi non avrei mai smesso di approfondire,
cercare di capire, posizionarmi, anche perché è vero che
questo "quasiromanzo" parla di ex Jugoslavia, di
Balcani e di geopolitica, ma anche di molto molto altro. Sembra
il doloroso parto di una sciamana, di una gitana enciclopedica e
desiderosa di schierarsi sempre e comunque con chi non ha,
con chi non è
( giusto,
ricco, appoggiato, adeguato, per bene), con chi non riesce, con i
vecchi, con i malati. E’ un libro con una quantità infinita
di stratificazioni, di diramazioni, di affluenti. che si
può fruire e godere in tanti modi. E’ un libro meraviglioso che va
contro tutto quello che ci viene offerto glassato e decorato( devi
essere giovane, magro, ricco, introdotto, pulito, superficiale, senza
troppa etica, non certo comunista, non certo scomodo, se non rompi le
scatole meglio).
Meraviglioso,
sul serio.
Danneggia,
essere enfatici? Non lo so, sinceramente me ne frego. Non lo sono mai
stata con un libro scritto da uno scrittore italiano.
Aggiungo: è
il miglior libro italiano che ho letto negli ultimi 20, 25
anni.
Per molto tempo, ricordo, quando attraversavo la necessaria fase di
snobismo giovanile, i libri italiani non li leggevo proprio,
contemporanei o anche moderni. Quando ho cominciato a pubblicare mi
chiedevano delle mie letture e io elencavo, con meticolosa
attenzione: Proust, Joyce, Djuna Barnes, Marguerite Duras, Virgina
Woolf, Simone De Beauvoir, Dos Passos, Harold Brodkey..
Mi fermavano, e mi chiedevano : “Ma, italiani?” Non sapevo mai
cosa dire, tranne Giuseppe Berto, Vittorini, Primo Levi, la Morante,
qualcosa. Ho sempre trovato Dacia Maraini una scrittrice irritante,
per i miei gusti( pare la più studiata all'estero, la più nota),
per quel poco che ho letto in treno al posto di una rivista quando
hanno pubblicato nei tascabili i suoi romanzi, non ho mai sentito
brividi, carne, sangue, corpo e pathos leggendola. Certi giallisti
sono irritanti e non mi coinvolgono. I nomi da elencare col
tempo sono stati anche altri, Don DeLillo, Salinger, Pynchon, Joyce
Carol Oats, Coetzee, la Jelinek, il mio amico Nick Flynn, Ann
Tyler e, di recente, molto di recente, da agosto, Imre Kertész.
Ungherese, di Budapest, premio Nobel 2002. Uno scrittore che mi ha
cambiato l’idea di letteratura, e anche la vita un pochino ( forse
molto più di quello che credo, forse per via della sua città che
lascia crepe nel cuore come la sua letteratura, o forse per la
potenza dei suoi libri: quando vi fa questo, la letteratura, questo
effetto che sfuma i contorni, che ti prende per mano verso un altrove
impensato è solo la magia dello scritto che resta, il
libro, i libri, nemmeno
la biografia dell'autore riveste tanta importanza, l'identità dello
scrivente diventa acquerello, il testo no. E' qualcosa
di sempre più raro ma che ancora accade). A Kertèsz e all'emozione
della scoperta dei suoi libri, avvicino Sappiano
le mie parole di sangue.
A un Nobel, sì. Eccessivo? Mi presterò al dileggio. Nocivo per
l’autrice? Non è affar mio, il libro diventa “oggetto del
lettore”. Oggetto letterario che il lettore fa suo, che interpreta,
sente. Proverò a spiegare il perché, a cercare le ragioni, di
questa vicinanza che percepisco. Una delle ragioni è in fondo quella
fondamentale. Una volta hanno chiesto a Kertész: “Lei
ha spiegato che, ogni volta che immagina un nuovo romanzo, pensa ad
Auschwitz. Perché?”
Questa è stata la risposta.
”Perché Auschwitz ha costituito la frattura etica più grande in duemila anni di storia europea. L’arte che non "sente" questa frattura non è arte, è solo intrattenimento di massa”Nel suo libro Babsi Jones parla di “pogrom”. Cosa significa potete trovarlo qui http://it.wikipedia.org/wiki/Pogrom e altrove, ma di certo si tratta di andare a toccare, a stanare, a narrare quella frattura di cui parla Kertész. Lo scrittore Jones questa frattura etica la sente con tale potenza che, se avete la pazienza di spulciare e osservare con impegno e serietà anche solo una parte del suo fitto lavoro fotografico, documentario e di scrittura che ha compiuto per anni su internet. Non tutti, credetemi ci vanno. Prendono e parto per andare e documentare, gratuitamente, con, nel termine "gratuità" il senso del fare per urgenza e bisogno, il senso del lasciare tracce per strappare dall'oblio ciò che nell'oblio può, potrebbe cadere, con una facilità che non consideriamo( i ventenni non sanno niente della Strage di Bologna, niente di piazza Fontana, figuratevi se, loro e anche altri, sanno di San Sabba, di Jasenovac, o deifratelli Cervi . Fondamentale, su questo, la lettura di questi Appunti partigiani.) Tornando a Sappiano le mie parole di sangue, nella Risiera di San Sabba, è ambientato un capitolo del quasiromanzo:
”Perché Auschwitz ha costituito la frattura etica più grande in duemila anni di storia europea. L’arte che non "sente" questa frattura non è arte, è solo intrattenimento di massa”Nel suo libro Babsi Jones parla di “pogrom”. Cosa significa potete trovarlo qui http://it.wikipedia.org/wiki/Pogrom e altrove, ma di certo si tratta di andare a toccare, a stanare, a narrare quella frattura di cui parla Kertész. Lo scrittore Jones questa frattura etica la sente con tale potenza che, se avete la pazienza di spulciare e osservare con impegno e serietà anche solo una parte del suo fitto lavoro fotografico, documentario e di scrittura che ha compiuto per anni su internet. Non tutti, credetemi ci vanno. Prendono e parto per andare e documentare, gratuitamente, con, nel termine "gratuità" il senso del fare per urgenza e bisogno, il senso del lasciare tracce per strappare dall'oblio ciò che nell'oblio può, potrebbe cadere, con una facilità che non consideriamo( i ventenni non sanno niente della Strage di Bologna, niente di piazza Fontana, figuratevi se, loro e anche altri, sanno di San Sabba, di Jasenovac, o deifratelli Cervi . Fondamentale, su questo, la lettura di questi Appunti partigiani.) Tornando a Sappiano le mie parole di sangue, nella Risiera di San Sabba, è ambientato un capitolo del quasiromanzo:
” Il
cortile della Risiera di San Sabba è esteso. Bianche muraglie. Sul
lato sinistro, l’edificio adibito ai condannati a morte; di fronte
a noi, sul fondo, quel che resta della ciminiera del crematorio,
potevamo ancora parlare ad alta voce.” Guarda il conflitto bosniaco
attraverso il prisma della Seconda guerra mondiale. Rifletti su
quanto era rimasto in sospeso fra le popolazioni coinvolte. Non
prenderlo come un episodio a sé stante, senza lascito storico” ti
dissi” non commettere anche tu questo errore marchiano. Torna
indietro nel tempo, abbi coraggio.””1942” scrissi sulla
lavagna, e scrissi “Crna Legija”“Ascolta.
Screbrenica occupata dai legionari neri del Primo Reggimento di
Fanteria degli ustascia alleati con i nazisti. La popolazione
bosniaco-musulmana in netta maggioranza si arruola di buon grado,
tanto da dar vita alla Tredicesima Divisione Handzar, voluta da
Hitler in persona; per liquidare serbi, zingari ed ebrei. Quando
parliamo di Sarajevo e di Srebrenica oggi, noi parliamo di ostilità
che riprendono dopo cinquant’anni di intervallo forzato..”
Babsi
Jones è dentro la
“frattura “ che nomina Kertész , Jones non lascia
perdere, non gira lo sguardo, studia e documenta, scrive e riporta,
la frattura la sovrasta e la ossessiona ma non la allontana e
anzi, ci affonda le mani rischiando di scavare dove pochi o
nessuno erano andati a scavare, con coraggio. Tira fuori scheletri,
topi morti, frantumi, frammenti, residui, sabbia .Babsi Jones in
questo libro sgretola quelli che sono stati considerato torti o
ragioni. E’ convinta che anche chi è storicamente stato messo
“dalla parte del torto” necessiti di una documentazione. Abbia
diritto a una cronaca. La Serbia, Belgrado.
E chi, anche lì, non vive ma sopravvive, quei marginali,
quegli "scarti
umani",
dai quali non distoglie lo sguardo, dai quali non si allontana. Segue
esattamente quella definizione precisa, e, direi, incontestabile ,di
Kertész sulla frattura etica.
Quindi Babsi Jones non fa letteratura di intrattenimento. Caspita, questo è qualcosa difficile da digerire nel tempo di cui si diceva, quello dell’orlato leggero. Il nostro tempo cerca SOLO intrattenimento, e ciò che non intrattiene, ciò che non rilassa, addormenta, ipnotizza di suggestioni commerciali, penetra negli archetipi, titilla l’estetica, mostra tanti piccoli nulla brillanti, pre- confeziona verità adattabili e di ottima sartoria per tutti i poteri presenti e futuri, compie qualcosa di profondamente eretico e sovversivo. Scrive qualcosa che non distrae, non parla di "grandissime fiche" o di piccole storie, non inventa narrazioni da "ottimo esercizio di scrittura creativa", o incolla ricordi passati resi minimalisti dallo stile. No. E' zingara e attrice, è di ceramica e di ferro. Procede imperterrita. Disturba in fondo. Ci obbliga a voltarci dalle nostre tivù schermo piatto diecimila pollici, dai nostri computer, dalle nostre fotocamere che documentano masturbazioni estetiche, o minimi frammenti già impastati, letti e riletti, stucchevoli come un'indigestione di paste alla crema, di bignè comperati per una domenica di festa. Inoltre fa questo usando un linguaggio spurio, mischiato, stratificato, “colluso”, impastato, teatrale e basso, alto e ritmato, ansioso e lentissimo, corporeo, caldo. Caldo e corporeo, ecco, non pensiate che si tratti solo di guerra, nel quasiromanzo di Jones e che per questo sia un libro noioso: è un libro difficile, un libro che richiede di fare una piccola fatica in più rispetto al solito niente, al solito sbracamento di superficialità senza scopi o ragioni ma con presunzioni. Però è un libro pieno di volti, di carne, di verità non inseguite, semplicemente sperimentate, ( pure experiencing, come afferma sempre Charlotte Joko Beck), un libro di pietas profonda, di attenzione alle cose, ai riti, a ciò che è altro, diverso: è un libro di istantanee scomposte che ci riportano con consapevolezza verso quello che non guardiamo perché ci importa poco di allargare lo sguardo e abbracciare il mondo quando abbiamo spaziosi tinelli, cucine Berloni e materassi col sistema Renova:
Quindi Babsi Jones non fa letteratura di intrattenimento. Caspita, questo è qualcosa difficile da digerire nel tempo di cui si diceva, quello dell’orlato leggero. Il nostro tempo cerca SOLO intrattenimento, e ciò che non intrattiene, ciò che non rilassa, addormenta, ipnotizza di suggestioni commerciali, penetra negli archetipi, titilla l’estetica, mostra tanti piccoli nulla brillanti, pre- confeziona verità adattabili e di ottima sartoria per tutti i poteri presenti e futuri, compie qualcosa di profondamente eretico e sovversivo. Scrive qualcosa che non distrae, non parla di "grandissime fiche" o di piccole storie, non inventa narrazioni da "ottimo esercizio di scrittura creativa", o incolla ricordi passati resi minimalisti dallo stile. No. E' zingara e attrice, è di ceramica e di ferro. Procede imperterrita. Disturba in fondo. Ci obbliga a voltarci dalle nostre tivù schermo piatto diecimila pollici, dai nostri computer, dalle nostre fotocamere che documentano masturbazioni estetiche, o minimi frammenti già impastati, letti e riletti, stucchevoli come un'indigestione di paste alla crema, di bignè comperati per una domenica di festa. Inoltre fa questo usando un linguaggio spurio, mischiato, stratificato, “colluso”, impastato, teatrale e basso, alto e ritmato, ansioso e lentissimo, corporeo, caldo. Caldo e corporeo, ecco, non pensiate che si tratti solo di guerra, nel quasiromanzo di Jones e che per questo sia un libro noioso: è un libro difficile, un libro che richiede di fare una piccola fatica in più rispetto al solito niente, al solito sbracamento di superficialità senza scopi o ragioni ma con presunzioni. Però è un libro pieno di volti, di carne, di verità non inseguite, semplicemente sperimentate, ( pure experiencing, come afferma sempre Charlotte Joko Beck), un libro di pietas profonda, di attenzione alle cose, ai riti, a ciò che è altro, diverso: è un libro di istantanee scomposte che ci riportano con consapevolezza verso quello che non guardiamo perché ci importa poco di allargare lo sguardo e abbracciare il mondo quando abbiamo spaziosi tinelli, cucine Berloni e materassi col sistema Renova:
” Il
caffè, da Budapest a Istambul, si prepara tacendo:per non dire se
sia serbo, sia greco, sia turco o croato. Chi lo menziona e specifica
si ustiona. Avrà in dono vesciche di geopolitica nevrotica sui
polsi. Il caffè è al centro di una storica contesa:come tutte le
pietre, le chiese dentro cui sono sorte moschee sotto cui riposavano
templi sefarditi rivestiti da madrase, gli incroci stradali, i sughi,
le salse e le danze; ognuno pretende di esserne padre… Il caffè,
qui, è una farina nerastra che bolle in un bricco; lo zucchero si
aggiunge in cottura, fra le bolle schiumose. Il caffè lo si versa e
si attende: il residuo di miscela, ingerito, gratterebbe la gola. Il
deposito è materia ottimale per la caffeomanzia: l’arte di predire
il futuro nelle viscere di una dozzinale tazzina. Compiendo rotazioni
rapide, si procede alla lettura delle incrostazioni: le figure più
chiare sono buoni presagi; si vedranno anelli, balene, bilance,
sombreri, numeri e astri, serpenti e gradinate o grappoli d’uva.”
E
ancora:”Terzo
piano. Entro a caso in un appartamento. Muri su muri su muri. Li
tocco…. A questo sono ridotta: a far parlare in mia vece fenditure,
fessure, cemento, crepe, calce, calcina e mattoni spolpati. Qualche
particella di ferro già divorata dalla ruggine. Quattro muri: sempre
gli stessi, e sempre diversi; come distinguere un muro in caduta da
un altro, come classificare macerie e spoglie edili, come schedare
questi toni di grigio; come scindere la mia solitudine in isolamento,
rifiuto, inquietudine, frustrazione, paura, panico. I mille gradi di
un assedio, le mille stanze di questo condominio: sono una
specialista oramai, a declinare queste sottigliezze calcinate, questi
fremiti sassosi, queste pignatte imbrattate in lavelli abbandonati ,
questi mobili stritolati. La mia è una esegesi dell’infimo: il
mestiere che ho scelto è tenere aggiornato un archivio di finali, di
rovine, di disfatte e tracolli. “
E’
un quasiromanzo, come lo chiama Babsi Jones, da sempre ma, raspando
nella frattura,
Jones ci avvicina a quello che viene narrato. E quanto ci avvicina,
siamo accanto, ci infastidisce, non vorremmo essere slabbrati e
puzzolenti in quel palazzo abbandonato, durante quell'assedio ma ci
siamo.Vorei
sottolineare come viene
narrata, questa storia inconclusa, questo cerchio non combaciante:
una scrittura che tocca le corde profonde dei nostri cuori e delle
budella, gli oggetti dei nostri giorni, del nostro quotidiano, e
anche se non siamo reporter a Mitrovica, nel Kosovo, a documentare,
forse, l’orrore, o a cercare semplicemente di sopravvivere scovando
brandelli di umanità e di fiducia insieme a brandelli di corpi
dilaniati e di cani ululanti, vengono festeggiati, resi vivi, piccoli
oggetti, piccole cose, i muri, le mele, la carta, il suo linguaggio
ci fa da ponte, si offre come
ponte, ci offre le parole. Questa azione del “rendere vivo”
quello che è inanimato e soggetto a violenza ed emergenza, è azione
dolorosissima:
” Il
mio assedio, al di là dei mortai e dei banditi, è il bisogno
patologico di narrare che si oppone al mutismo agognato; non volere
più niente che si oda , si scriva o si dica. Hanno già detto
troppo, hanno già detto tutto. Mio malgrado mi accordo che il tempo
non mi ha ancora messa in disparte, che si è preso la briga di
avanzare persino per me: incastrata fra indistinguibili colpevoli e
vittime. Di questo tempo che non riesco a fermare, né a esprimere,
devo fare qualcosa: è il motivo per cui narro, se è utile che si
ostenti o dichiari un motivo. Non l’ho scelta la scrittura: mi ha
attesa, mi ha presa in ostaggio: questa storia nella Storia,
Direttore, non mi è mai appartenuta: era già tutta lì. A mani nude
io vado a pescarla; ne strappo dei pezzi; a mani nude, negli
anfratti, fra ciarpame e detriti. Faccio danni; per quanto i
delicatamente possa smuovere questo ammasso, ogni figura che sposto,
ogni suono che riproduco crea nuove simmetrie e asimmetrie,
composizioni inedite che si ricomporranno, decomporranno. Devo
scegliere in fretta: quale cane, quale morto, quale fiamma, quale
pozzo, devo scegliere in fretta: strutturare un paragrafo e metterlo
in serbo e daccapo..”
Anche
Kertész, soprattutto inFiasco,
parla del suo rapporto con la scrittura in termini vicini,
accostabili a quelli di Jones, se pur con altri parametri geografici,
temporali. Sappiano
le mie parole di sangue è
un romanzo- mosaico, con capitoli di una bellezza che commuove, che
fa chiudere il libro e prendere fiato per l’intensità, per la
durezza. Un romanzo che rivela cose non sempre note, cose
controverse per alcuni che sulla guerra dei Balcani avevano( hanno)
loro certezza. Si fa "paria" coi suoi "paria"
Jones, vorrebbe che le si gridasse dietro "sei una disgraziata",
o anche "ma cosa dici". Per smuovere, per togliere polvere,
per capire meglio. Sarebbe bello, sarebbe confortante, se
vivessimo in un tempo capace di andare a fondo alle cose, se
vivessimo in un tempo curioso dove non funziona solo ciò che è
precotto e pronto per il microonde di un successo di tam tam o
di perfette "liasons", che sui temi
rivelati, narrati, declamanti, dipinti, fotografati da Babsi Jones in
questo libro si organizzassero occasioni di approfondimento,
convegni: se confrontarsi sulla geopolitica
contemporanea diventasse argomento ed elemento per capire questo
nostro presente politicamente compromesso e compresso. Sarebbe bello
che di questo libro si cogliessero gli strati da torta millefoglie,
il corpo, il mix di suggestioni musicali, l’influenza- ossessione-
presenza di Amleto e le mille ragioni, la contaminazione di linguaggi
e stili che prosegue anche nel sito che l’autrice ha costruito, le
tesi forti, la pietas dolente, la suprema umiltà e la bellezza di
ogni parola, di ogni riga. Sarebbe bello. Chissà. In
ogni caso, illumina le strade, l'asfalto, gli angiporti, le penombre
noiose fatte di tanti piccoli niente da leggere per noia o per
celia Sappiano
le mie parole di sangue. (
quanti piccoli niente che chiamiamo romanzi!)Un libro che mi rende
fiera di essere italiana, che rimarrà nel tempo, a cui in tanti e
per tanto torneranno. Non c’è niente che io abbia letto scritto da
uno scrittore italiano che sia stata un’esperienza così
intensa, emozionante, importante: Il libro di Babsi Jones ha
modificato la mia idea di Europa, mi aiutato a “pensare” più
ampio, più grande, più consapevole, più attento al
dettaglio, alla piccola cosa. Babsi Jones mi ha offerto uno
sguardo( senza assoluti, uno sguardo) sull’umanità e
sulle cose, che in fondo raramente hanno torti o ragioni che non
siano perfettamente intercambiabili. E mi ha offerto una storia
di coraggio che mi ha risucchiato, avvolto, reso grata, mi ha
indignato, stimolato, sedotto. Credo che non comprarlo, non
leggerlo, non averlo, sarebbe un grandissimo peccato, uno scialo: non
buttate via più di quello che già buttiamo, più di quello che
tralasciamo e a cui quotidianamente rinunciamo: oggetti, occasioni,
cose, libri; credo che Sappiano
le mie parole di sangue contamini
certezze che abbiamo paura di sentir scricchiolare e che per
questo debba,
sul serio, essere comprato, tenuto in libreria: non è il momento,
adesso? Incrocerà i periodo giusto nella vostra vita, ma non
perdetelo, non lasciatelo scivolare via insieme alle solite
spocchiose parole di dileggio e di scherno, di offesa di chi , su
giornali che liberi sono solo nel nome non sono in grado di
arrivare nemmeno a uno schizzo del fango in cui si è immersa
Jones, non lasciatelo andare, fra la grancassa dei "pro" o
"contro", perché perdete un’occasione.
Avvicinatelo senza giudizi, con il rispetto per un grande lavoro, con
la sobrietà necessaria. Purtroppo da tanto tempo poche cose si
rivelano un occasione per guardare meglio e capire meglio. Questo
libro lo è, una vera occasione, etilica e psichedelica a
tratti, reale e oggettiva fino al disgusto, fino all'eccesso,
un'occasione di dolcezza, indecenza e coraggio per
leggere, percepire, farsi inondare, rileggere, scandire,udire una
lingua zingara e odorosa, scalpitante e controllata, magnifica.
Questo, semplicemente.
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