Sadeq Hedayat. La civetta cieca

Ho solo paura di morire domani, prima di essere riuscito a conoscermi appieno.
Si rintracciano suggestioni provenienti da Edgar Allan Poe e Thomas de Quincey, e qualcosa di Kafka e Huysmans riecheggia qua e là contro le volte de La civetta cieca di Sadeq Hedayat, pubblicato meritoriamente da Carbonio Editore. Il libro, che si avvale di una nuova quanto preziosa traduzione di Anna Vanzan, tuttavia, non è una mera riproposizione di temi cari agli autori citati prima, ma il frutto di un vero e proprio incontro tra la tradizione e la cultura persiane, il superamento dei vincoli più stretti con la tradizione stessa e con la lezione proveniente dalle correnti letterarie occidentali.
Nella Civetta cieca il confine tra realtà, visioni destate dall’oppio e fantasia slitta di continuo, impedendo di comprendere su quale piano – “realmente” – si stia muovendo la narrazione. Così, a partire dalla vita isolata dell’io narrante alla comparsa di una donna dallo sguardo terribilmente profondo, e di seguito tutte le vicende che seguono, il racconto non offre mai punti fermi, “scivola”. Fino ad arrivare all’India, luogo in cui l’autore soggiornò per un anno – nel 1936 – e da cui fu attratto con forza anche sotto l’aspetto religioso e filosofico.
Su tutto campeggia la sorprendente capacità di Hedayat di rendere viventi gli elementi che hanno a che fare con la morte, e mortalmente impressionanti quelli che (apparentemente) hanno a che fare con la vita, con un’intensità e una forza espressiva che, trasposte sul piano figurativo, farebbero pensare ai disegni di Alfred Kubin. Questa direzione non perde forza nemmeno nella parte “indiana” del racconto, dunque: si passa dalla donna dagli occhi terribili e dal suo seppellimento all’interno di una valigia, dopo essere stata tagliata a pezzi, alla figura sinistra del macellaio, figura emblematica per il vegetariano Hedayat, passando per le rovine dell’antica città di Rey e per il ritrovamento di un vaso dalle caratteristiche decisamente inquietanti. Un passaggio dopo l’altro, si giunge alla conclusione, che si ricongiunge con un geniale clic all’inizio della storia. Hedayat ne esce da maestro, unificando la/le realtà e la personalità dell’io narrante, con un effetto straniante e angoscioso. In sintesi: l’Io nel labirinto.

Paolo Melissi

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