Maurizio Pansini. Oscura ragione
Scendeva dalle montagne,
quelle più alte lì in fondo alla valle.
Circondavano e
delimitavano la conca, come una corona: da un lato le alte cime,
dall’altro il blu intenso di un mare profondo e austero.
Il passo calmo, da
gran camminatore, lo condusse inevitabilmente verso la riva, dove si
affacciavano le poche attività del luogo. Taverne, bar, rivendite di
pesce e gli edifici addetti alla dogana.
Gli sguardi degli
anziani, seduti sulle poche sedie esterne al caffè, lo
accompagnarono mentre, lento, si avvicinava.
Il cappellaccio, le
scarpe consunte, la sacca lisa. Notarono tutto questo, ma chi era
quell’uomo e soprattutto cosa lo conduceva lì?
Chiese “Un caffè”
nel dialetto locale ma risultò solo un infantile tentativo di far
credere di poterlo parlare.
I vecchi si
guardarono tra loro. “Un forestiero!” sentenziarono silenziosi.
E si rimisero in attesa,
con lo sguardo pigro e indifferente, ma in realtà curioso e attento,
a osservare l’uomo, che, poggiando le sue povere cose sul tavolino
traballante del caffè, si accomodava con il lento gioire del
camminatore, quando sa di poter meritare una lunga sosta.
Il grasso oste gli
servì una tazzina bollente e una brocca di acqua fresca. Poi restò
lì, nell’aria calda e secca, in attesa di un’ulteriore
ordinazione.
Lo straniero parlò
brevemente, l’omone si allontanò tornando subito dopo con un
piattino di pomodori, olive e un po’ di pane. E rientrò nel
locale. Solo allora l’uomo, dopo aver assaggiato qualche oliva,
osservò lentamente il luogo. Fissò lo sguardo su tutti gli astanti,
che rapidi distolsero gli occhi. Sembrava stupito e divertito quasi.
Un sorrisino gli
alzò solo un lato delle labbra.
Richiamò, con fare
risoluto e sicuro, l’oste, e lo interrogò sulla possibilità di
avere un alloggio, perché, disse, avrebbe passato un periodo non
precisato in quei luoghi. Poteva pagare, ma con poche e ristrette
disponibilità.
Da quel giorno lo
videro sempre allo stesso tavolino, intento a scrivere su di un
grande blocco, rilegato da una pesante copertina scura. Il lento rito
con cui apriva quelle pagine e cominciava la fitta scrittura era
ormai parte degli avvenimenti fissi e ripetitivi della piazzetta,
ombreggiata da un enorme platano che ne rinfrescava l’aria nelle
ore più calde. L’oste, istigato dagli anziani, impiccioni e
curiosi, cercava di sbirciare le pagine, mentre aspettava
l’ordinazione del forestiero. Riferiva, però, di non aver potuto
decifrare nulla perché evidentemente lo straniero scriveva nella sua
lingua. Nessuno sapeva qual era.
La notizia della
presenza dell’uomo nel paese si sparse presto in tutte le case.
La silenziosa ma
prepotente curiosità femminile fece il resto. Davanti all’unica
fonte d’acqua, proveniente dalle alte cime lì intorno, le donne
escogitarono un piano per saperne di più. Decisero di inviare la
figlia della più anziana del paese, considerata per questo la più
saggia ed esperta, a servizio dall’ospite straniero. Avrebbe così,
con tutto comodo, potuto riferire quello che avveniva tra le mura
dell’abitazione. L’uomo accettò subito la proposta, senza
sospettarne il vero motivo. Sembrò anzi sollevato dal fatto di poter
delegare la pulizia della piccola casa, dei suoi pochi vestiti e la
possibilità di aver da mangiare lì, senza dover recarsi alla
taverna. La ragazza poi era di piacevole aspetto e questo, insieme al
suo sorriso, il primo che gli fu rivolto da quando era in paese,
sembrò rasserenarlo ulteriormente. La ragazza riferì che non era
ancora riuscita ad avvicinarsi per sbirciare sui fogli, perché a lui
sembrava venisse istintivo chiuderli ogni volta che lei gli passava
vicino. Questo particolare non fece che far crescere in maniera
esagerata le più fantasiose ipotesi.
Sinché… tutto
precipitò nel momento in cui, cambiato all’improvviso il clima,
una frana interruppe e ostruì l’unica strada che collegava il
paese al resto dell’isola. Il mare gonfio e scuro non permetteva
l’uso dell’altra via di collegamento. Il senso minaccioso
d’isolamento incupì il cielo e i volti. L’umore degli abitanti
si fece nervoso. Le scorte di cibo sembravano essere sufficienti ad
affrontare la crisi, ma quasi senza volerlo, ognuno cominciò con
diffidenza a nascondere l’entità delle proprie riserve. L’unica
cosa che si consumò in maniera maggiore fu il vino, che, anziché
sciogliere i pensieri più preoccupanti, sembrava aumentarli in
maniera fosca.
Al forestiero però
non fecero mancare nulla, e non perché questo pagasse per quello che
gli offrivano, anzi. Le donne sembrava facessero a gara per preparare
cibi complicati. Lui cercava di spiegare che non sarebbe riuscito a
mangiare tutta quella roba.
Inutilmente.
Cominciò per questo
a mangiarne sempre più.
Il vino gli era offerto
dagli uomini, ognuno dei quali pretendeva diversi brindisi che
rendessero omaggio alla propria produzione. Alla fine della giornata
il forestiero intonava strani canti a squarciagola dall’alto della
scogliera. Col ripetersi di questi rituali le donne istruirono la
ragazza ad approfittare dell’allontanamento dell’uomo per spiare
quelle pagine, che lui continuava a riempire con fitta scrittura.
Avevano scelto lei perché l’unica ad aver frequentato la scuola,
imparando un’altra lingua.
Nel frattempo la
situazione peggiorò.
Gli animali si
ammalarono di una strana epidemia che, nel giro di due o tre giorni
li faceva morire tra urla e strazio. La preoccupazione diventò
paura. La morte degli animali significava affamare gli umani.
Bruciarono le carcasse per paura di contagi.
Poi si ammalò il
primo bambino.
La paura si
trasformò in terrore, il terrore in paranoia. Il clima peggiorò, le
nubi basse e scure sembravano tende di un palcoscenico. Il dramma
stava per cominciare.
Qualcuno fece notare
la coincidenza tra l’arrivo dello straniero e l’inizio delle
sventure.
Una sera gli uomini
si recarono dal forestiero convincendolo a seguirli per partecipare a
un rito. Lo fecero bere in modo smisurato.
La ragazza poté
agire senza troppe precauzioni. Scovò il librone sotto il materasso.
Poggiatolo a terra
né aprì il complicato legaccio, che ne stringeva
la copertina. Poi con difficoltà, dovuta alla fitta scrittura e alla
paura, decifrò il testo. Terrorizzata richiuse il libro e scappò
nel buio della sera. Attraversò il sentiero petroso che la riportava
a casa.
Tra i singhiozzi
spiegò che lo straniero stava scrivendo una storia che corrispondeva
a ciò che avveniva nel paese. La frana, il mal tempo, l’epidemia.
E nell’ultima pagina, scritta nel pomeriggio, anticipava la fine
degli abitanti tutti. A quel punto tutti i dubbi e i sospetti ebbero
fine: lo straniero era la causa delle sventure, anzi era lui a
crearle.
Il maledetto ne era
l’artefice.
Si riunirono allora
tutte nella piazza, ognuna con la sua torcia e corsero a raggiunger
gli uomini appena fuori il paese.
Nel vederle arrivare
con le loro vesti nere, gli sguardi folli, illuminati dalle torce,
gli uomini capirono subito e afferrato l’uomo, che ubriaco pensò a
un ballo rituale, lo trascinarono su di un grande masso.
Riversarono sui
vestiti la forte grappa dai bottiglioni. Le donne lanciarono le
torce.
Lo sguardo di
stupore dell’uomo mise fine a ogni suono.
Senza
un gemito guardava le fiamme venir su. Rimase a lungo in piedi mentre
il fuoco distruggeva gli abiti cominciando a bruciare la carne. Cadde
in ginocchio emettendo un suono orribile nella notte buia.
Una parola, forse.
Fine e principio.
Rientrarono tutti in
paese, mentre il corpo bruciava ancora.
Postfazione
Avevo ideato il
racconto una decina di anni prima, tracciandone i fatti salienti in
un breve appunto. Rimandandone sine die la scrittura. Sino al giorno
in cui, rientrato dall’abituale giro tra le isole greche, volli
indagare sull’origine e il significato di una parola, legata alla
visione di un albero, ritenuto spettatore delle riunioni di Ippocrate
con i suoi discepoli.
La parola che
m’incuriosiva era Pharmakos.
Quale il mio stupore,
di più, la strana sensazione di un oscuro presagio, quando scoprii
che nell’antica Grecia quel nome significava “il maledetto” e
designava un essere umano scelto perché emarginato o particolarmente
ripugnante, era rivestito e rifocillato dall’intera comunità e
infine scacciatone a sassate o ucciso fuori le mura. Esattamente la
trama del mio racconto.
Fu allora dovere, o
oscuro dettame, completarne in fretta la stesura.
Maurizio Pansini
Bari Luglio 2018
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