Le stanze dell'addio di Yari Selvetella
Yari
Selvetella
Le
stanze dell'addio
Bompiani,2018
“Siamo
già noi soli, su quel peschereccio. Ci muoviamo su un mare denso
che la prua non increspa. Indossiamo vecchie salopette da sciatori,
mangiamo biscotti preparati dalla moglie del capitano. Siamo venuti
in cerca di balene e di tanto in tanto emerge qualcosa: una gobba, un
sospiro, una pinna caudale, una vocale, molte vocali. Siamo noi e
alcuni pensionati norvegesi, una coppia asiatica, il mare scuro,
nessuna onda, nessun animale per intero, finché il capitano non
fornisce canne da pesca a tutti i passeggeri:la superficie è nera,
appena l'amo affonda abbocca un merluzzo, un grosso nasello
boccheggiante dall'occhio tondo, dalle squame lucide... il nostro
bambino, il più piccolo, ha paura di quei pesci guizzanti e
luminescenti, gli altri si divertono. Più riescono, più sorridono.
Loro vivono nel presente e io sospiro, non so ma sospiro...Ti chiamo
anche se la telefonata internazionale costa molto. Sei lì a qualche
chilometro, ma la nostra voce dovrebbe attaccarsi a celle e piloni
disseminati per l'intero continente. Tu però non rispondi. Compriamo
il giocattolo al centro commerciale, torniamo. L'abitacolo si intride
di puzza di sudore, ma non apro il finestrino perché è bastata una
nuvola e il freddo è sceso come un coperchio di zinco a ricordarci
dove siamo. Molto lontani da casa.”
Comincia
così questo magistrale romanzo di Yari Selvetella, questo libro che
narra del dolore e del destino, questa storia universale. Si tratta
dell'incipit? Forse, certo è un inizio ma forse lo sembra, è solo
un movimento circolare, un impercettibile sfioramento di tempo e di
spazio prima di introdurci fra le stanze dove la storia si dipana, si
avvolge e si svolge, implacabile, senza indulgenza,dove l'uomo con
lo zaino e il barista intrecciano la loro intesa che sfida il destino
che spezza programmi, idee, piccole banalità, persino abitudini.
Un romanzo che racconta la fine, e attraverso questo raccontare la fine, le fini che aleggiano e che si anticipano nel passaggio fra le varie “stanze” ( immagini potentissime fra l'incubo e il labirinto, quello che si immagina di trovare, dopo, quello che si può, se si è attenti, già vedere, sentire, odorare anche adesso, inesorabile spinta verso le cose così come sono), attraverso queste fini si narra la vita. Cos'è. Di che cos'è fatto il tempo, l'amore, la famiglia, l'intesa? C'è abbastanza amore, c'è cura negli istanti?
Quali sono gli impercettibili movimenti, le abitudini piccole e fondamentali che restano e resteranno anche dopo?
Un romanzo che racconta la fine, e attraverso questo raccontare la fine, le fini che aleggiano e che si anticipano nel passaggio fra le varie “stanze” ( immagini potentissime fra l'incubo e il labirinto, quello che si immagina di trovare, dopo, quello che si può, se si è attenti, già vedere, sentire, odorare anche adesso, inesorabile spinta verso le cose così come sono), attraverso queste fini si narra la vita. Cos'è. Di che cos'è fatto il tempo, l'amore, la famiglia, l'intesa? C'è abbastanza amore, c'è cura negli istanti?
Quali sono gli impercettibili movimenti, le abitudini piccole e fondamentali che restano e resteranno anche dopo?
“Al
barista che mi saluta non rispondo. Vorrei, forse, ma non lo faccio.
Sto pensando, sto già parlando, ma non so con chi lo sto facendo,
perdo il ritmo, è tutto un rumore di vetri e tazzine, di vapore e
discorsi che rimbombano, di codazzi di studenti col camice, quando
provo è già tardi...Bevo il caffè, non è niente di eccezionale
però mi sveglia, fa il suo dovere, mi ricorda delle tante
incombenze, me ne vado... Nella sala dei gravissimi ci sono divani
color granato, appena spellati, ci sono cuscini e spifferi deleteri,
coperte gratuite, mascherine obbligatorie. Ci sono bozzoli sotto
quelle pezze ispide, ferroviarie; sotto la lana grezza di sono
bozzoli infreddoliti, lisci come bambini, glabri e stanchi. Però
anche in certe circostanze capita di ridere. Come quella volta con
l'iPod touch, una cuffietta per uno, quando ci sorprese la canzone di
Renato Zero...
Ognuno
ha il suo bozzolo, accarezza e culla. La madre, il figlio, il marito
accarezzano e colluna, o il veleno gli tinge di giallo la pelle. Si
sospira guardando fuori la collina ricoperta di boschi, da decimo
piano dell'ospedale, ma più in fondo la città ricompare”
Cosa
rimpiangiamo, dopo? Il tempo negli ospedali, è fatto di lentezze e
di brusche accelerazioni, è fatto di attese dolenti, di conforti
blandi ( il bar, luogo centrale, necessario). La descrizione dei
bozzoli che affianchiamo, la descrizione della fragilità dei corpi,
è uno dei primi punti in cui, leggendo, qualcosa nel lettore si
spezza dentro, ritrovando percorsi noti, ritrovando la laicissima
sacralità del corpo umano nel momento del bisogno definitivo. La
grandezza di questa narrazione è nel montaggio- calibrato e
perfetto- e in questi punti dove ognuno davvero, magari a malincuore
o forse no si ritrova, trova un pezzo di se, del suo percorso, del
percorso di chi gli sta o gli è stato accanto, chiunque legge si
commuove e sente. Raramente i romanzi potenziano il sentire e
raramente il linguaggio lavora dentro le viscere del lettore come
riesce a fare Selvetella. C'è un'empatia lucida e a tratti
anarchica, nel procedere in queste stanze, in questo percorso che va
indietro, poi si ferma, attende, arretra un po', ricerca ragioni e
motivi e poi riprende.Ci sono i gesti minimi, e quelli immensi, che,
dopo l'immensa perdita resteranno a contenere o a liberare il dolore
nello spazio di un ricordo improvviso, un battito di ciglia. La
perdita incolmabile e intollerabile della propria compagna all'inizio
non può essere accettata, non deve, all'inizio è una prospettiva
folle che rende monchi e distrutti, svagati e perduti nella speranza
insensata, nella ricerca più folle. Così la ricerca attraverso le
stanze dei ricordi, attraverso i reparti dell'ospedale, attraverso
gli anni che sembrano e sembravano tanti o pochi ed infondo è
uguale. La ricerca è speranzosa e dolorosa, è una ricerca di chi sa
che può smarrirsi, di chi necessità di ritrovarsi bozzolo a sua
volta per potere, poi ricominciare. Perché è necessario andare
avanti con la vita, non ci si può fermare lì, nei meandri di quel
dolore stratificato, disseminato in luoghi che a tratti è possibile
ricomporre e a tratti no, però, per poter andare avanti occorre
qualcuno che possa essere un po' gentile, un po' attento. Quella mano
che stringe, che spiega, quel richiamo alla realtà delle cose, che
deve anche guardare quello strapiombo ingiusto che si chiama assenza,
che si chiama morte e dolore infinito. Che deve rappresentare quella
speranza che è l'accettazione della fine come parte integrante di
tutto ciò che è vitale, in un ciclo a cui inevitabilmente
apparteniamo.
Le stanze dell'addio è uno fra i più intensi, straordinari romanzi italiani degli ultimi anni, destinato senza alcun dubbio a restare, un romanzo che amplifica la percezione del lettore, che coinvolge e rievoca con la capacità sinfonica di chi dirige- affannandosi, certo- l'orchestra che il destino gli ha dato in sorte e ne fa una creazione indimenticabile.
Francesca Mazzucato
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