LONDON CALLING infinite sadness di Emanuela Nardo


Un uomo canta Vincent, una leggera pioggia bagna la piazzetta. solo pochi avventori nei pub e nei ristoranti dell’area coperta, i più fortunati sono seduti su delle panchine e ascoltano quest’uomo che canta dolcemente, ad un passo il silenzio e la notte che avanza lentamente sotto la pioggerella fine fine, come nebulizzata che solo in questa città ho trovato. Si sente la voce calda dell’uomo anche dalla vicina stazione della metro, appena si esce si è attirati da questa mesta melodia. I negozi sono chiusi da ore.
 I mercatini sbaraccati da di più. Il primo di aprile la città si prende gioco dei turisti e lascia i luoghi da cartolina deserti, così che solo chi sa dove andare si diverta davvero. Passa un gruppo di ragazzi che richiamano l’attenzione mia e dell’amico che li sta aspettando dall’altra parte, quella dove nel periodo natalizio allestiscono un grande albero. Questa volta la città non è più fascinosa e intrigante come lo è sempre stata, mi sembra di non sapere nulla di questo luogo, per quanto mi sforzi ogni volta di cercare cose nuove da fare e vedere, la sua essenza non la afferro mai del tutto ma stavolta la mia immaginazione non sta riempiendo i buchi delle mie aspettative. 
Nessun pensiero a concerti e chissà che avrei potuto fare qui, ascolto soltanto quello che c’è fuori, le persone i rumori, nessuna elaborazione perché nulla mi vieti di sovrascrivere i momenti. Sono venuta qui per farmi subissare dal frastuono, dal movimento perpetuo, dall’entusiasmo dei turisti che vedono per la prima volta alcuni luoghi inflazionati. E vorrei riavere l’entusiasmo della prima volta anche io. Non c’è superbia nei miei pensieri piuttosto desiderio di provare di nuovo meraviglia, per questo luoghi nuovi, gente diversa, lingua diversa; pur di allentare il borbottio soffocante del presente incerto, del recente passato, del futuro da definire ancora e ancora.
-Ti va se andiamo a vedere il vecchio Ben? Domani non faremo in tempo. Siamo sulla stessa linea.
- Sì, va bene.
- Ci sono delle cose da vedere ogni volta anche solo di sfuggita. Dei punti fermi di una città, che la definiscono.
L’orologio è coperto per lavori, più in là il ponte dell’attentato. Poco più di un anno e pochi metri. Guardo le auto sfrecciare sotto la pioggia. immagini dei tg ritornano alla mente ma non riesco a formulare un solo pensiero degno di nota, fisso solo le auto sotto quello che è diventato un temporale. 
- Troppa pioggia per fare due passi. 
- Torniamo in albergo.
La metropolitana è il sacrario dei pensieri. Sottoterra, occhi sullo schermo del cellulare, o sguardo fluttuante. Mi abbandono totalmente all’osservazione discreta dei passeggeri. Mi colpisce una donna, ha i capelli biondo cenere, corti. Le donano. Gli occhi azzurri leggermente sporgenti, la pelle bianchissima. Tiene le gambe accavallate strettissime nei sui jeans fuori moda. Non posso origliare cosa sta dicendo a causa del frastuono del treno intervallato dalla voce metallica e femminile che richiama l’attenzione sulle prossime fermate, e perfino da quella voce artefatta si sente la musicalità di questa lingua; una nota una parola. Mi chiedo che percezione sonora debba dare la mia voce quando parlo. In un altro periodo mi sarebbe bastato essere un Si minore e poi un Re maggiore. La tristezza e poi un respiro profondo di apertura. La donna sta chiacchierando con l’uomo che le siede accanto.  Costui trasmette un forte senso di praticità, di quelli che sanno come muoversi e cosa dire, ma il suo essere così reale, saldamente attaccato a terra, lo fa apparire goffo vicino a quelle labbra sottili e a quegli occhi sfuggenti. Non sento ciò che si dicono ma vedo lei, rannicchiata su se stessa, difensiva e fragile e poi il suo lungo collo bianchissimo allungato verso l’alto, a sorreggere un cumulo di vorrei. Ipotizzo le loro parole. Lei gli sta parlando di  qualche progetto, qualcosa che vorrebbe fare non solo in quel momento ma in un futuro prossimo, deve essere qualcosa che sente come speciale, un piccolo cambiamento che la renderà finalmente più vicina alla serenità che tanto spera. Guarda verso l’alto mentre parla e poi lascia scivolare la testa verso il basso come imbarazzata senza commettere l’errore di essere scattosa, c’è armonia e delicatezza, come un unico movimento alla giusta velocità e questi occhi accompagnano la scena allargandosi verso l’alto o richiudendosi verso il basso a proteggersi nuovamente; la tristezza e l’apertura. Scendono qualche fermata prima della mia, lei davanti a condurre, lui dietro a seguire la sua leggerezza.



Il giorno dopo una cameriera di un ristorante ferma il divagare dei miei pensieri nella zuppa di noodle, è bastata una semplice consonante a tradire le sue origini, un accostare la punta della lingua ai denti ed ecco che i capelli neri e gli occhi scuri, su una camicetta a fiori rossi rivelano una bella ragazza spagnola. Dietro al bancone della cucina una ragazza dai capelli corti e una bandana in testa parla distintamente in italiano. Provo sempre piacere e fastidio a sentire parlare la mia lingua all’estero, amore e odio per la patria. Penso a loro sul treno che mi riporta in aeroporto. Penso a cosa si aspettassero di trovare, a cosa desideravano, a cosa aspirano ancora, a come sono le loro giornate, a come deve essere svegliarsi e lavorare in questa città. A come la bellezza di un luogo diventata quotidianità svuoti di meraviglia e piacere il luogo stesso. Svegliarsi la mattina in case strette, appoggiare i piedi nudi sulla moquette, lavarsi in piccoli bagni e poi le scale e correre verso il primo caffè e la metro.  Il treno attraversa la periferia e si vedono tante palazzine accatastate con i loro caminetti e le finestre strette. Qualche edificio fatiscente e poi capannoni nel verde pieno e fiero dei campi. 

Non posso fare a meno di pensare a Veronica, ai suoi anni qui. Lei che vedeva la Grenfell Tower tutti i giorni passando con la metro. Anche tre cambi, tutto per andare a servire patatine in un fast food. Ripenso a lei, al suo rammarico. E penso a come cercava di legittimare la sua esperienza qui attraverso la  difesa della qualità della carne dei panini serviti.  Non so se odiasse più quello che aveva lasciato o quello che aveva trovato. Partita con un compagno e tornata con un bambino e un nuovo lavoro da trovare. Veronica, 35 anni ma se ne sentiva almeno 15 in più: sette per il figlio, quattro passati in un ufficio a convincere se stessa che non si sarebbe mai fatta infettare troppo dai modi sprezzanti, irrispettosi e opprimenti dei suoi capi, due di precariato e due passati a Londra a inseguire un uomo e il desiderio di altro. Il tempo però ha dato ragione ai suoi capi e così da vittima si è trasformata in carnefice, esponente della mediocrità e meschinità che aveva subito. Era la frustrazione, come non capirla. Se penso a lei mi vengono in mente le sue frasi un po’ grette sul rapporto con gli uomini e le donne che non hanno ancora figli, come se fossero entrambi punti deboli su cui colpire per prima. Ma non posso rimproverarla troppo per le sue piccolezze, avendo mostrato a lei le mie. L’incertezza e i timori da prima esperienza hanno reso me più vulnerabile e meno flessibile ed ecco che il rapporto tra noi due si è incrinato. Va bene così penso, doveva andare così, io che chiedo con il poco coraggio che mi rimane in corpo dopo un mese di porte chiuse, silenzi e nessuna mansione assegnata, conferma sulla fine, lei che abbassa lo sguardo e con voce sottile risponde:  “sì finisce qui”. Eppure qui in questa città doveva essere leggera anche lei, con i suoi capelli ricci, la voglia di riscatto. La immagino arrivare con i suoi timori in valigia e le sue speranze pronte a rilanciare il suo mondo. Prima di salire in aereo aspettiamo sulle scale che accedono alle piste, si vedono i passeggeri scendere da altri aerei e nuove persone pronte magari a intraprendere nuove vite qui. Una di loro sarei potuta essere io, una di loro è stata Veronica.

Commenti

  1. E' un'alternanza di proiezioni e intrioezioni questo racconto, una simbiosi tra la voce narrante, la citta (particolarmente grigia) e i personaggi incontrati.
    Piaciuto e cupo
    massmolegnani

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